di Bruno Dumont (Francia, 1999)
“Io non devo trasformare i personaggi in degli eroi. I film in cui l’eroe è una brava persona non hanno un valore, sono solo un divertimento. Il mio cinema è come un vaccino, un veleno. Io lo inietto, così lo spettatore impara a difendersi”. Questo è Bruno Dumont, prendere o lasciare. Dopo un esordio con i fiocchi (“L’Età Inquieta”), il regista di Bailleul gira il secondo lungometraggio ancora una volta nella sua terra d’origine, il desolato e selvaggio nord-est francese. Le sensazioni sono molto simili al debutto, cambiano soltanto i protagonisti.
La prima inquadratura in campo lungo ci mostra un uomo che in lontananza cammina nel cuore della natura circostante: tale silente immobilità la ritroviamo praticamente per tutta la durata del film, perché dove accadono questi eventi tutto sembra essersi fermato (l’unica cosa che corre è il treno che sfreccia lungo i binari, un mezzo alieno che non appartiene di certo a questa realtà). La storia, se così possiamo chiamarla, è invece incentrata sulle indagini di un ispettore di polizia locale (Pharaon De Winter) incaricato di risolvere un caso di omicidio davvero raccapricciante. Nelle campagne vicino al paese è stato infatti ritrovato il cadavere di una ragazzina stuprata, una scena shock che ci viene sbattuta in faccia nei minuti iniziali dell’opera con un traumatico primo piano sulla vagina sanguinante della vittima (immagini controverse che hanno fatto inorridire i benpensanti).
Ormai lo conosciamo bene, Dumont è uno a cui piace girare non poco attorno agli eventi: la risoluzione del caso diventa quindi l’ultimo dei problemi per il regista, in due ore e venti c’è altro su cui focalizzarsi. Lo studio del carattere di Pharaon, la sua quotidianità infelice, il rapporto ambiguo con la vicina di casa Domino (a sua volta fidanzata con Joseph), questo è il vero asse portante che attraversa “L’Humanité”, un prodotto per certi versi estenuante ma pregno di oscuri significati (persino simbolici, come quel richiamo esplicito al dipinto L’Origine Del Mondo di Gustave Courbet).
Il male che tanto affascina Dumont dimora tra questi fotogrammi, è l’apatia di una ripresa statica che si perde all’orizzonte, è la provincia sonnolenta che cova le più malsane perversioni, è il sesso crudo e realistico che provoca repulsione più che eccitazione. Potreste annoiarvi, lo dico senza troppi giri di parole, ma vi assicuro che “L’Humanité” è un signor film che non si dimentica facilmente.
Infine si rivela azzeccata la scelta di attori non professionisti: Emmanuel Schotté nei panni di un ingenuo e strambo ispettore di polizia è il volto perfetto, alla faccia delle polemiche scoppiate durante il Festival di Cannes del 1999, quando sia lui che l’attrice Séverine Caneele si aggiudicarono i premi come migliori interpreti. Grazie a questa pellicola Bruno Dumont entra definitivamente nel giro che conta, nonostante un terzo successivo lavoro (“Twentynine Palms”) aspramente criticato, purtroppo aggiungiamo. Una carriera che in seguito non ha mantenuto le promesse, soprattutto durante il decennio appena trascorso (se escludiamo il notevole “Hors Satan” del 2011), anche se ci piace sempre ripensare a questo talentuoso regista come se fosse un figlioccio di Bresson e un fratello non dichiarato di Reygadas. Scusate se è poco.
(Paolo Chemnitz)
L’ha ripubblicato su l'eta' della innocenza.
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