di Matthew Holness (Gran Bretagna, 2018)
Quello di Matthew Holness è un nome da tenere d’occhio per il futuro, il suo “Possum” rappresenta infatti un esordio di tutto rispetto, nonostante gli evidenti limiti dettati dal budget e da uno script fin troppo scarno (un mediometraggio di cinquanta-sessanta minuti sarebbe stato perfetto per quanto effettivamente proposto). Le idee messe sul piatto sono comunque intriganti e la cornice dentro la quale prendono vita le vicende merita da sola la visione del film.
Il burattinaio Philip (eccellente la prova del pallido Sean Harris) cerca di chiudere con alcuni traumi irrisolti del suo passato: il primo di questi riguarda il rapporto con il patrigno (Alun Armstrong interpreta il lercio Maurice), un personaggio squallido che dimora in una zona suburbana della città attraversata da canali di scarico e da una campagna poco rassicurante. Il protagonista si muove in quest’area depressa portando con sé un borsone, all’interno del quale è presente un mostruoso pupazzo simile a un ragno antropomorfo (Possum è il suo nome). Philip deve disfarsi del burattino, ma quando questa creatura comincia a prendere forma negli incubi dell’uomo, lo psicodramma si fonde con la realtà fino a una tragica resa dei conti.
“Possum” è un prodotto molto particolare e di non facile assimilazione: i dialoghi sono pochi ed essenziali e l’ossessivo girovagare di Philip sembra non voler condurre da nessuna parte. Tuttavia l’opera si basa proprio su questa continua sottrazione, un vuoto colmato da un insistito tappeto sonoro di taglio ambient curato dai Radiophonic Workshop (uno score davvero alienante) e dal tormento stesso del protagonista, un individuo che tenta di esorcizzare il dolore che lo perseguita. Matthew Holness guarda ovviamente al David Cronenberg di “Spider” (2002) ma anche al più recente “The Babadook” (2014), soprattutto per via di quella filastrocca e di quei disegni che inesorabilmente ci fanno ripensare alla presenza di un’entità maligna. Tuttavia in “Possum” non c’è spazio per il sovrannaturale, ciò che conta infatti è il cupo simbolismo in cui sono immersi questi due personaggi, una cappa di grigia oppressione che si dibatte tra angoscia, sensi di colpa e un’infanzia perduta (Philip è cresciuto senza genitori e la sua fragilità è stata calpestata dagli abusi dell’orco Maurice). Ma forse è troppo tardi per scacciare quel demone interiore causa di orrore e di infelicità.
Chi fosse alla ricerca di un prodotto di confine tutt’altro che stereotipato, non può trascurare questo titolo proveniente dalla Gran Bretagna, un film criptico e psicologico che con poche risorse riesce a raggiungere i suoi discreti obiettivi. Per il visionario Matthew Holness le premesse per fare del buon cinema partono dunque da qui.
(Paolo Chemnitz)