di Yoshihiko Matsui (Giappone, 1981)
In pochi conoscono la carriera di Yoshihiko Matsui, un regista underground classe 1956 che in oltre trent’anni di attività ha diretto soltanto quattro film (tra i quali l’eccellente “The Noisy Requiem” del 1988). Oggi facciamo un bel passo indietro per parlarvi del secondo lungometraggio di Matsui, una vera e propria esperienza estrema figlia delle influenze surreali di Shûji Terayama, forse l’unico nome da cui la pellicola attinge in maniera consistente.
“Pig Chicken Suicide” (“Tonkei Shinjû”) è un’opera sperimentale che non ha bisogno di un plot specifico: seguiamo la vita di due giovani coreani discriminati dai giapponesi e immersi in un mondo allucinato, dove si alternano immagini a metà strada tra il weird e il ripugnante. I maiali macellati nel mattatoio rappresentano un colpo basso difficile da mandare giù, mentre ci si risolleva un po’ (si fa per dire) con le grottesche sequenze girate in un pollaio, in cui osserviamo uno strambo individuo ormai immedesimato con gli animali che ha di fronte. Questa carrellata di bizzarre situazioni non si esaurisce qui, non mancano infatti particolari inquietanti (gli uomini in maschera) che si susseguono a scatti di violenza, di erotismo e di malato isterismo (le urla lancinanti).
Questi novanta minuti di visione riescono a tratti a incollarci allo schermo, mentre in altre circostanze emerge una sensazione di noia latente che collima perfettamente con lo sviluppo ingarbugliato delle vicende: in effetti è davvero difficile mettere ordine dentro un lavoro del genere, anche a livello concettuale, nonostante il regista abbia spiegato in più occasioni che il legame tra il pollo e il maiale è la metafora del passaggio dall’infanzia all’età adulta. Quando diventiamo grandi e consapevoli, cresce in noi un grado di insoddisfazione sottolineato dai trattamenti discriminatori che riceviamo. Tutto chiaro ma fino a un certo punto.
“Pig Chicken Suicide” è stato girato in bianco e nero ma ben presto le virate rosa-violacee della fotografia diventano il marchio di fabbrica del film: tornano in mente di continuo le avanguardie del decennio precedente in un’ottica art house, da Thierry Zéno (il depravato “Vase De Noces” del 1974) fino al già citato Terayama, soprattutto con l’anarchia di “Emperor Tomato Ketchup” (1971). Questo è Yoshihiko Matsui, prendere o lasciare, un regista che si muove libero all’interno di un campo minato dove ogni passo corrisponde a un rischio ben calcolato. “Pig Chicken Suicide” tuttavia è ben lontano dalle vette del successivo “The Noisy Requiem”, ma è un lavoro che non lascia affatto indifferenti, una straniante immersione nel dolore da cui si esce frastornati e disturbati. Eccovi servito il cinema estremo orientale che oggi non si fa più, un disagio sui generis distante anni luce da ogni etichetta e da ogni possibile classificazione.
(Paolo Chemnitz)