di Kantemir Balagov (Russia, 2017)
“Mi chiamo Kantemir Balagov e sono cabardo. Sono nato nella città di Nalchik, Caucaso settentrionale, Russia. Questa storia è accaduta a Nalchik nel 1998”. Brevi ma eloquenti parole introduttive che ci catapultano dentro una realtà geopolitica poco conosciuta all’interno dello sterminato territorio ex sovietico, la Repubblica Autonoma Cabardino-Balcaria, un luogo rurale, arretrato e all’epoca tormentato dalle tensioni nella vicina Cecenia. Balagov, allievo di Aleksandr Sokurov, nel 2017 ha solo ventisei anni, un motivo in più per restare impressionati da questo pregevole lungometraggio capace di raccontarci le più intime vicende di una famiglia sull’orlo del collasso.
Ilana (eccellente la prova di Darya Zhovnar) lavora nell’officina del padre, entrambi sono di origine ebraica ma non sono ricchi come gli altri membri della loro comunità: inoltre la ragazza frequenta un giovane cabardo, un amore inconsueto considerando gli attriti anche di origine razziale tra queste due realtà così diverse. Dopo una festa in casa, il fratello di Ilana viene rapito insieme alla sua promessa sposa. Non ci sono però i soldi per pagare il riscatto, così per i genitori della protagonista l’unica scelta è quella di scendere a un terribile compromesso, ovvero accettare del denaro in cambio di un matrimonio combinato tra la ribelle Ilana e un ragazzo ebreo di buona famiglia. Un bivio che mette questi individui con le spalle al muro, perché niente e nessuno può cambiare il destino a cui stanno andando incontro.
Un inconsueto e volutamente claustrofobico formato 4:3 ci accompagna per due ore di pura amarezza, dove ogni abbraccio (e ce ne sono tanti) corrisponde a un gesto di affetto ma allo stesso tempo di dolore. Un dolore vivo e palpabile, dentro un’opera nella quale l’elemento thriller del rapimento scompare quasi del tutto davanti al dramma personale di Ilana, una donna prigioniera delle regole, delle imposizioni e dei pregiudizi di quel mondo crudele. Attorno a lei, la cornice di una guerra conclusasi da poco (ma in procinto di ricominciare), i segni della cattiveria umana che il regista ci sbatte in faccia attraverso un breve ma agghiacciante filmato televisivo in cui assistiamo alle immagini (vere) di alcuni soldati sgozzati senza pietà.
“Tesnota” è l’ennesima produzione russa che si smarca completamente dagli stereotipi del cinema contemporaneo: la stessa regia di Balagov si accoda a quel disarmante realismo di scuola post sovietica in cui l’ambiente circostante riesce a impregnare ogni inquadratura di disagio e disillusione. Come quel finale aperto che ci lascia immaginare qualcosa che forse non accadrà mai, una fuga verso nuove sfide probabilmente ancora più difficili da superare. Questo è un film che merita soltanto elogi.
(Paolo Chemnitz)