Behemoth

behemothdi Zhao Liang (Cina/Francia, 2015)

Per un regista cinese non è affatto facile raccontare la realtà e le disparità economiche del proprio paese: che si tratti di finzione o di documentario c’è sempre la possibilità che intervenga la censura vietando quel prodotto in patria. Questo accade soprattutto quando si indaga sulla vita degli ultimi, degli invisibili, di persone fagocitate e schiacciate dal capitalismo, nel nostro caso un gruppo di minatori. Già nel 2003 il possente dramma di Li Yang “Blind Shaft” (sempre ambientato in una miniera) fu censurato dalle autorità cinesi, una sorte poi toccata ai tanti lavori diretti da Zhao Liang, incluso questo “Behemoth” (“Bei Xi Mo Shou”), documentario presentato a Venezia nel 2015.
Ci troviamo nella Mongolia Interna, una vasta e rocciosa regione settentrionale cinese in cui si trova una grande miniera di carbone: la telecamera segue il lavoro senza sosta di questi uomini stremati, il lungo andirivieni dei camion e la tragica quotidianità di quel posto segnato, dove il tempo sembra essersi bloccato. Il titolo del film prende spunto dalla figura biblica di Behemoth (un demone che può incarnare anche la lussuria e l’ingordigia, una bestia ben pasciuta che sguazza tra edonismo e avidità), mentre la struttura dell’opera segue un percorso dantesco che dall’inferno (le anime dannate nei cunicoli della miniera) ci porta su in purgatorio (i malati terminali che attendono la morte), fino ad arrivare in paradiso, un luogo surreale rappresentato da una straniante città disabitata che sorge in mezzo al nulla, una sfilza di palazzoni desolati che mettono i brividi addosso.
Con pochissimi mezzi a disposizione, Zhao Liang gira un piccolo capolavoro che in qualche modo si discosta dal documentario tout court per come lo conosciamo: il regista non solo indaga sulla routine dei minatori, ma esplora il territorio circostante attraverso l’utilizzo di alcuni espedienti che travalicano l’idea stessa del film. Una variante poetica (non troppo dissimile dall’installazione artistica contemporanea) in cui l’essere umano, nudo e disteso, ritorna per un istante alla natura (inquadrata doverosamente in campo lungo). Poi compare uno specchio, i cui riflessi sembrano voler intrappolare l’impotenza di quelle lande destinate esclusivamente allo sfruttamento delle risorse ma anche allo spreco più assoluto. Behemoth è quindi lo stato che accumula ricchezza sulle spalle dei lavoratori, i cui polmoni ormai sono neri come il carbone che estraggono. Ma Behemoth è anche l’umanità intera, che si autodistrugge privandosi di ogni speranza per il futuro.
All’interno di questo paesaggio contaminato da una polvere funesta e torturato da mille esplosioni, Zhao Liang lancia il suo messaggio apocalittico e anticapitalista citando persino Michelangelo Antonioni e il suo “Zabriskie Point” (1970). Questa steppa però è solo il pianterreno di un girone dantesco che si sviluppa nel sottosuolo, tra opprimenti gallerie e una bollente fonderia. Tuttavia una volta raggiunto il purgatorio, inteso come malattia e successiva morte bianca, il paradiso rimane soltanto un’utopia, un regno di cemento armato dove si muovono soltanto fantasmi.

4,5

(Paolo Chemnitz)

behemoth_

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...