Un Lac

MCDAALA EC002di Philippe Grandrieux (Francia, 2008)

Per poter ammirare un film di questo genere bisogna mettersi comodi sul divano, spegnere la luce e tagliare qualsiasi ponte con il mondo circostante, entrando nel mood viscerale suggerito dal regista senza distrarsi neppure per un attimo. Il cinema di Philippe Grandrieux è questo, prendere o lasciare, una straniante esperienza sensoriale che sperimenta anche sulla pelle dello spettatore. “Un Lac”, tra tutti i suoi lungometraggi finora realizzati, è quello più breve (il minutaggio sfiora i novanta minuti), ciò comunque non significa che Grandrieux abbia voluto semplificare la sua formula: si tratta solo del suo lavoro meno dispersivo, un tunnel senza vie di fuga che si attraversa trattenendo il fiato, nella speranza di vedere l’uscita.
La trama? Non conta, c’è un lago (come suggerisce il titolo del film), un bosco innevato e una manciata di personaggi che interagiscono tra di loro. In questo paesaggio isolato vive una famiglia composta dai due genitori e i tre figli: la telecamera si sofferma quasi esclusivamente su Alexi (un ragazzo che soffre di improvvisi attacchi di epilessia) e sulla sorella Hege, per la quale il ragazzo prova un sentimento incestuoso. Attorno a loro, il silenzio. Quando un taglialegna di nome Jurgen si affaccia tra quelle lande, l’equilibrio dei giovani protagonisti inizia a vacillare.
Sarebbe inutile parlare di “Un Lac” utilizzando un linguaggio ancora più criptico rispetto a quello mostrato dalla pellicola, ci limitiamo dunque a lanciare un input in modo tale che possiate avvicinarvi con curiosità o meno a questo cinema puramente anticonvenzionale (sicuramente estremo, esteticamente parlando). Dalle prime immagini percepiamo subito una simbiosi tra l’uomo e la natura, una fusione che può assumere una valenza sia positiva (di liberazione) che negativa (di silente fagocitazione). Il regista chiude i volti dei personaggi attraverso inquadrature strettissime, un calore umano che invece si disperde con rapidità nelle riprese in campo lungo, dove la presenza dei vari individui viene letteralmente soffocata dal panorama circostante. La location (Grandrieux ha girato il film nei pressi di Zurigo) è mozzafiato: una coltre bianca filtrata da luci fredde (violacee o tendenti al blu) si mescola ai mille alberi scheletrici che si innalzano su quelle montagne, istantanee che potrebbero far pensare a una copertina black metal o al quadro più desolante di Theodor Kittelsen. Un immaginario nel quale l’energia sensuale sprigionata dalle espressioni del viso si integra alla perfezione con la potenza divina della natura, non a caso una volta al chiuso i protagonisti del film restano sempre avvolti in una quasi totale oscurità (c’è un legame complementare tra interni ed esterni).
Il sonoro svolge un ruolo fondamentale e non poteva essere altrimenti: i dialoghi sono ridotti al minimo, perché in un contesto simile solo il tatto può dominare sulla parola e sullo sguardo (la madre di Alexi è non vedente, lei può toccare, percepire e assimilare l’anima di quel mondo remoto che la circonda). “Un Lac” è un ritorno all’essenza primordiale della specie umana, un flusso capace di manifestarsi soltanto nel cuore di un plumbeo paradiso incontaminato. Sensazioni di terrore e di libertà che si rimescolano di continuo, come il cinema di Philippe Grandrieux, un francese sui generis che non ama raccontare storie per lasciare spazio a una trasgressione cosmica delle regole cinematografiche. Tanto ostico quanto unico.

4

(Paolo Chemnitz)

unlac

 

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