di Alfred Hitchcock (Stati Uniti, 1960)
Quante volte avremmo sentito nominare, citare o celebrare questa pietra miliare del cinema? Quante volte avremmo visto e rivisto la famosa scena della doccia? C’è poco da fare, “Psycho” (o se volete “Psyco”) è uno di quei capolavori che ha stravolto non solo la concezione di thriller psicologico, ma anche la carriera stessa di Alfred Hitchcock. Un grande e meritato successo commerciale che a distanza di sessant’anni continua a ispirare giovani registi e non, ponendosi come modello assoluto per lo sviluppo dell’horror moderno, un titolo di cui solo pochissimi film si possono fregiare (pensiamo al seminale “Carnival Of Souls” di Herk Harvey o alla nascita degli zombi politici creati dal genio di George Romero).
La caratterizzazione di Norman Bates (un magnifico Anthony Perkins) risulta fondamentale per l’esito dell’opera, perché come diceva Hitchcock, “più riuscito sarà il cattivo, più riuscito sarà il film”. Motivo per il quale in “Psycho” gli altri personaggi risultano un contorno o poco più, pedine che si avvicendano attorno al Bates Motel cercando di sbrogliare una matassa che si fa sempre più ingarbugliata. Quella di Norman Bates è una figura che fin da subito lascia trasparire inquietanti sensazioni: la sua timida gentilezza si accompagna infatti al mistero che avvolge la sua tetra abitazione dalle forme gotiche (posta alle spalle del motel), dove l’uomo vive in totale solitudine con una madre che in realtà non è altro che la sua doppia personalità. Questa idea di voler dare una seconda vita a ciò che è morto la ritroviamo persino nell’hobby che coltiva il protagonista, ovvero quello di impagliare uccelli. Piccoli indizi che si sommano con molta parsimonia, perché il regista gioca a carte coperte fino alla tragica rivelazione finale, quando l’orrore nascosto dietro il Bates Motel si mostra in tutto il suo raccapriccio.
L’omicidio nella doccia è importante per tanti motivi: si tratta di immagini altamente cruente nonostante il coltello dell’assassino non affondi mai nel corpo della vittima. Dietro la riuscita di queste incredibili sequenze c’è un lavoro durato sette giorni (con la macchina da presa posizionata in settantadue modi diversi) e un montaggio serrato di enorme intensità, fotogrammi accompagnati da una colonna sonora stridente, incalzante e fastidiosa come un urlo improvviso. Queste sequenze in qualche modo spaccano in due la pellicola, poiché interrompono la fuga di Marion Crane (Janet Leigh) con la conseguente apertura delle indagini per ritrovarla. Le coltellate poste quasi a metà del cammino rappresentano quindi la punta dell’iceberg dell’intero lavoro, anche solo per il fatto che intravediamo (ma non vediamo) l’esecutore del delitto (Hitchcock riesce a depistare in maniera egregia le nostre prime convinzioni). Non a caso, nel celebre libro in cui François Truffaut intervista Hitchcock, il regista londinese ribadisce quanto non sia normale uccidere la star a un terzo del film (“l’ho fatto apposta a uccidere la star, perché così l’assassino risultava ancora più inatteso. Un modo per mantenere il pubblico il più lontano possibile da quello che accadrà”).
“Psycho” è tratto dall’omonimo romanzo scritto nel 1959 da Robert Bloch, a sua volta basato sulle vicende reali del serial killer Ed Gein, un libro che per giunta non aveva per nulla impressionato Alfred Hitchcock. Il regista parte da queste coordinate ricamandoci sopra un film teso, tecnicamente ineccepibile (il secondo omicidio è una lezione di cinema), in cui l’insistenza di alcuni particolari diventa il leitmotiv che ci conduce per mano fino alla risoluzione del mistero. “Psycho” è un film universale, un’opera dove l’orrore diventa contagioso proprio per il modo in cui viene messo in scena: una suspense che schiaccia e opprime (lo testimoniano le varie inquadrature in plongée), una paura che si sdoppia in un continuo gioco di specchi e geometrie, come se un coltello squarciasse lo schermo durante la nostra visione. Su questo capolavoro sono stati scritti tanti libri e tante recensioni, noi ci siamo limitati a omaggiarlo sottolineandone solo alcuni aspetti principali: “Psycho” è una proiezione ininterrotta della morte, proprio perché ha le stesse mille sfumature di una mente malata invischiata in qualcosa di terribile. Apoteosi.
(Paolo Chemnitz)