di Shûji Terayama (Giappone, 1974)
“Pastoral: To Die In The Country” rappresenta l’apice visionario non solo di un grande sperimentatore come Shûji Terayama, ma di tutto il cinema giapponese degli anni settanta. Un film ermetico, onirico e autobiografico che si può accostare solo marginalmente alle opere di Alejandro Jodorowsky, perché se è vero che molti capolavori del surrealismo condividono lo stesso decennio di appartenenza, il caso di Terayama non subisce alcuna influenza dal fermento panico che stava imperversando in Francia o in alcuni paesi latini.
Considerando che “Pastoral” è un coming of age sui generis, forse l’unico accostamento possibile è quello con un altro lungometraggio simile per tematiche, ci riferiamo al cecoslovacco “Valerie And Her Week Of Wonders” (1970) di Jaromil Jireš, un’altra perla surrealista molto difficile da decriptare: Shûji Terayama però è giapponese e adotta un linguaggio ancora più ostico per lo spettatore occidentale, virando nel giro di tre anni dal caos sociale dell’anarchico “Emperor Tomato Ketchup” (1971) a questo monumento di pura e iperbolica avanguardia. Un film in cui tentare di spiegare ogni singolo fotogramma sarebbe soltanto un atto di presunzione, un voler trovare a tutti i costi dei significati che invece vanno ricercati altrove, nella radice concettuale che attraversa l’opera. Ecco che così questo bombardamento di immagini ci riporta a un messaggio unico e originario, basato sul ricordo del passato che diventa ossessione nel presente (“è stato scioccante trovarsi faccia a faccia col fantasma della mia infanzia”).
Sono trascorsi ormai vent’anni dall’adolescenza nel villaggio, il regista ha già mosso i primi passi ma la sua giovinezza ritorna indietro come un boomerang carico di allegorie: è un’immersione dentro un mondo carnevalesco nel quale ad esempio una donna pallone si lascia gonfiare dal marito nano (una scena tra le più weird del film). In questo strambo universo cresce appunto il piccolo Shûji Terayama, traumatizzato da una madre iperprotettiva e da una serie di eventi che sconvolgono drasticamente la sua percezione della realtà. Ecco perché “Pastoral” sembra l’incontro tra un Fellini sotto acido e un metacinema contaminato dal fantastico, un percorso poetico e visivamente strabiliante che affonda i suoi artigli nell’evocazione della memoria.
Una delle menti più trasgressive e geniali provenienti dal Giappone non poteva che partorire un prodotto del genere, in cui la perdita dell’innocenza trova il suo corrispettivo nella psicanalisi e nella decostruzione dell’Io. Solo filtrando i ricordi l’individuo sarà in grado di purificarsi, una liberazione che si può allargare a tutta la società, poiché anche il conflitto generazionale è un tema importante tra quelli presenti in “Pastoral”. Una critica al passato forse troppo autoreferenziale in alcuni passaggi ma incredibilmente illuminante nella sua profondità: con Shûji Terayama il cinema diventa prima di tutto esperienza sensibile e multiforme, un caleidoscopio (intriso di misticismo orientale) che cerca disperatamente di dare un senso all’identità del singolo e dell’umanità tutta, attraverso il confronto con ciò che è stato. Una filosofia meravigliosamente inafferrabile.
(Paolo Chemnitz)