In Fabric

in fabricdi Peter Strickland (Gran Bretagna, 2018)

Era trascorso un po’ di tempo dall’ultimo lungometraggio di Peter Strickland (l’elegante “The Duke Of Burgundy” del 2014), nonostante il regista fosse riapparso di recente nel dimenticabile folk-horror a episodi “The Field Guide To Evil” (2018). L’attesa è stata come sempre ripagata da un nuovo intrigante lavoro pregno di un gusto personale ben riconoscibile, un approccio al genere che attinge dal cinema degli anni settanta senza mai plagiare l’estetica di quel periodo. Ma in quali territori si muove questo cineasta di Reading? Non è facile etichettare il suo operato, poiché dalle atmosfere inquietanti del suo primo “Katalin Varga” (2009) siamo passati al metacinema nostalgico di “Berberian Sound Studio” (2012), fino a toccare il dramma a tinte gialle del succitato “The Duke Of Burgundy”. C’è un filo conduttore che attraversa queste opere, una regia che continua a stupire per la sua incredibile raffinatezza, un cuore vivo e pulsante che esplode definitivamente tra le inquadrature di “In Fabric”.
Sheila (Marianne Jean-Baptiste) si sente sola e vorrebbe un uomo accanto, se ne accorge soprattutto quando il figlio Vince e la fidanzata Gwen si accoppiano rumorosamente nella stanza adiacente: ci troviamo nell’epoca in cui ci si conosce anche con un semplice annuncio sul giornale, il metodo prescelto da Sheila per incontrare nuovi possibili compagni. Prima però la donna si lascia ammaliare dalla pubblicità di un grande magazzino, c’è uno splendido vestito rosso in vendita e la protagonista non se lo lascia sfuggire. Tuttavia si tratta di un abito maledetto, capace di attirare su di sé una serie di inconvenienti poco simpatici (la cena con il primo uomo) e persino pericolosi (la lavatrice impazzita o il cane inferocito). L’unico vero limite di “In Fabric” è nella sceneggiatura (curata dallo stesso regista), poiché se da un lato si crea una forte empatia con Sheila, l’ultima parte del film si concentra invece su un altro personaggio decisamente meno interessante (in una sorta di storia parallela sempre accomunata dal vestito in questione).
Peter Strickland mescola con ingegno horror, dramma e un tagliente umorismo che qua e là riesce ad alleggerire con successo i toni della pellicola: una formula in cui convivono personaggi di ogni tipo, alcuni spassosi (il figlio di Sheila), altri addirittura inquietanti (memorabile la nera figura di Miss Luckmoore), tutti in bilico su qualcosa di inafferrabile che inizialmente stentiamo a comprendere. “In Fabric” muove sicuramente una critica nei confronti del consumismo, ma lo fa attraverso un messaggio esoterico che plasma la mente su più livelli, non a caso la scelta del colore rosso richiama la passione, l’attrazione sessuale, il sangue, l’ambiguità stessa (tra bene e male). Una tinta aggressiva, motivo per il quale l’umore delle persone può addirittura mutare indossando un abito simile. Allo stesso tempo il regista identifica il rosso con la morte, con un fatalismo che è sempre in agguato durante la visione del film.
“In Fabric” andrebbe adorato solo per alcune scene magistralmente girate (quella dell’incidente con il manichino è da standing ovation), al di là di uno script non impeccabile che potrebbe far storcere il naso a qualcuno. La verità è che Peter Strickland continua a percorrere imperterrito la sua strada con stile e assoluta padronanza del mezzo, in questo caso surclassando il suo collega inglese Simon Rumley che nel 2016 con “Fashionista” ci aveva raccontato un’altra storia – stavolta poco convincente – di ossessione per i vestiti.

4

(Paolo Chemnitz)

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