di Fatih Akin (Germania/Francia, 2019)
Fatih Akin (classe 1973), nato in Germania da genitori turchi, è un regista che almeno al Festival di Berlino non conosce le mezze misure: se il 2004 è stato l’anno della consacrazione (“La Sposa Turca” ha vinto a mani basse la manifestazione), il nuovo film presentato nel 2019 ha ricevuto più fischi che applausi sconvolgendo molti spettatori, alcuni dei quali fuggiti dalla sala dopo pochi minuti di proiezione. Ciò non significa che “Il Mostro Di St. Pauli” (“Der Goldene Handschuh”) sia il suo peggior lavoro mai realizzato, tutt’altro, perché grazie a questa stramba e bizzarra pellicola Akin riesce ad approcciare il cinema dei serial killer con fantasia e personalità, miscelando il grottesco con qualcosa di assolutamente ripugnante e disumano.
St. Pauli, per chi non lo sapesse, è il celebre quartiere a luci rosse di Amburgo: proprio qui, all’inizio degli anni settanta, si muoveva un lercio psicopatico di nome Fritz Honka, salito ai disonori della cronaca per aver ucciso, smembrato e poi occultato i corpi di quattro donne conosciute dentro una bettola (il titolo originale del film rimanda al nome del pub dove il protagonista adescava queste signore piuttosto attempate). Una volta fatte a pezzi, Honka nascondeva quel che restava dei cadaveri dietro una parete del suo appartamento, un luogo nauseabondo tappezzato di immagini pornografiche.
Anche se le due ore scarse di questo lungometraggio hanno poco da offrire dal punto di vista narrativo (con qualche ridondanza in eccesso che si poteva evitare), “Il Mostro Di St. Pauli” è un lavoro che piace per tanti altri motivi: prima di tutto per il personaggio di Fritz Honka, un vero disagiato amante della bottiglia qui interpretato da un bravissimo Jonas Dassler, un ragazzetto del 1996 truccato alla grande per l’occasione. Oltre all’ottimo make-up, il film è perfettamente calato nella sua epoca di appartenenza grazie alle splendide scenografie e all’utilizzo della musica popolare del periodo, un mood che ci permette una completa immersione nel degrado amburghese dei 70s.
Fatih Akin non mostra pietà per nessuno, né per la perversa esistenza dell’omicida, né per le sue ignare vittime, una serie di figure tutte riunite all’interno di questa birreria dove si incrociano i destini più tragici (gli impulsi principali arrivano dal progetto fotografico Café Lehmitz di Anders Petersen). A differenza però dello squallore quotidiano visto in altre opere teutoniche dedicate ai serial killer (pensiamo al deprimente “Schramm” di Jörg Buttgereit), il regista di Amburgo colora questa solitudine di grottesche situazioni al limite del weird, uno stato di ubriachezza (e putrefazione) generale in cui precipitano gli eventi fino all’inevitabile e drastico epilogo. Ispirato all’omonimo libro di Heinz Strunk, “Der Goldene Handschuh” si candida come uno dei film più rivoltanti e politicamente scorretti dell’anno, tra teste segate, vermi che cascano dal soffitto, disgustose scene di sesso e un marciume che si manifesta già dall’orribile sorriso del protagonista. Fatih Akin di certo non incanta, ma colpisce duro con una pungente e amara ironia di fondo: poco importa se gli spettatori occasionali fuggono dal cinema, questa è roba che fa per noi.
(Paolo Chemnitz)