di Rémy M. Larochelle (Canada, 2003)
Soltanto in tempi recenti la sempre attiva Unearthed Films si è occupata della distribuzione home video di “Mécanix”, un film in realtà uscito nel lontano 2003. Si tratta di un recupero di tutto rispetto, per un’opera capace di apportare nuova linfa al cinema estremo più sperimentale di inizio millennio. Il regista Rémy M. Larochelle (fino a oggi “Mécanix” è il suo primo e ultimo lavoro) dimostra infatti di conoscere bene la materia, un terreno dove anche la creatività ha la sua importanza: ecco perché questa pellicola di soli settanta minuti si può definire un valido punto di incontro tra cinema fantasy, horror e di animazione.
Gli esseri umani sono diventati schiavi, il mondo ormai è nelle mani di strane creature biomeccaniche che temono soltanto l’embrione, l’origine di ogni cosa che dimora dentro le viscere di uno dei pochi superstiti rimasti. Per tale motivo spesso assistiamo a truculente scene di vivisezione, l’embrione infatti può distruggere questi esseri rendendo nuovamente libera la specie umana. In questo universo underground che tanto assomiglia a un incubo, si possono ascoltare solo fastidiosi rumori metallici e osservare gli ingranaggi che girano di continuo, una visione infernale decisamente intrigante nel suo claustrofobico quanto vintage viraggio seppia.
La tecnica stop-motion ci riporta direttamente alle strambe pellicole di Jan Švankmajer, un punto di riferimento costante per Rémy M. Larochelle: ma non è tutto, perché il regista canadese (formatosi come graffitaro e in seguito diventato anche pittore) volge lo sguardo persino a Georges Méliès, per poi citare più o meno consapevolmente i Quay brothers o le tentazioni steampunk di Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet (“La Città Perduta”). Un groviglio di sensazioni che funzionano, nonostante il terreno ostico sul quale siamo costretti a rimanere in equilibrio.
Cercare di dare un senso compiuto all’opera non è affatto una priorità, in fondo “Mécanix” è solo un’esperienza surreale che degenera nell’orrido, nel deforme, nel bestiale. Dove l’essere umano è soltanto sinonimo di dolore e sofferenza, mentre queste curiose creature (ottimamente realizzate) rappresentano un’angoscia ancestrale capace di scavare all’interno del nostro corpo, generando un martirio che cerca di estirpare l’ultima fonte di bellezza, di luce, di fecondità: l’embrione, forse il Dio che si nasconde dentro l’individuo libero.
(Paolo Chemnitz)