di Skye Borgman (Stati Uniti, 2017)
“Abducted In Plain Sight” è l’ennesima storia di ordinaria follia che ci arriva dalla provincia americana, dall’Idaho esattamente, lo stato nel quale durante gli anni settanta uno scabroso episodio di cronaca nera ha turbato la tranquilla quotidianità di una cittadina come tante. Skye Borgman dirige un documentario di quelli che fanno male, mettendo davanti alla telecamera i protagonisti di una vicenda a dir poco allucinante, dove la manipolazione di due ingenui genitori degenera in un episodio di pedofilia che tanto ha fatto discutere per le modalità con cui si è sviluppato.
Joe Berchtold è il nuovo vicino di casa dei Broberg, un uomo gentile e affabile che entra subito nelle grazie di questa famiglia piccolo-borghese (madre casalinga e padre fioraio): in verità Joe ha puntato la loro figlia dodicenne Jan Broberg, diventando immediatamente una sorta di secondo padre per lei. Conquistata tutta la fiducia possibile, Joe finisce persino nel letto della ragazzina senza che nessuno in famiglia gli dica qualcosa, una terribile ambiguità che ci viene spiegata nelle varie interviste (lasciandoci comunque sbalorditi per la facilità con la quale il maniaco poteva bypassare le più basilari regole morali). Joe Berchtold non solo si impossessa degli spazi intimi della giovane, ma si innamora di lei sequestrandola e portandola via con sé fino in Messico, dove tenta (invano) di sposarla dopo averle lavato il cervello. Costretto a tornare indietro per ottenere dai genitori il consenso per il matrimonio, l’uomo resta impunito e dopo un paio di anni rapisce nuovamente l’ormai quattordicenne Jan, cresciuta dentro una campana di vetro e mai realmente consapevole di ciò che le stava accadendo. Ma questo è nulla in confronto ai risvolti inquietanti che vengono rivelati nel corso del documentario.
Se è vero che la realtà supera la fantasia, bisogna sempre tener conto che i personaggi coinvolti in questo episodio sono un astuto sociopatico da una parte e una debole famigliola dall’altra: non c’è da stupirsi quindi se “Abducted In Plain Sight” sembra un incubo degno del miglior horror, dove la credibilità degli eventi spesso appare inconciliabile con lo svolgersi del racconto. Eppure accade questo, perché l’essere umano è davvero capace di tutto, nel bene e nel male.
Dal punto di vista tecnico Skye Borgman si limita a un compitino piuttosto facile, alternando le interviste con una serie di ricostruzioni vintage tutto sommato passabili: a tal proposito, è importante sottolineare come la storia in sé sia molto più interessante dello shockumentary stesso, incapace nei suoi novanta minuti di approfondire il background sociale che ha forgiato i Broberg, un nucleo familiare fortemente timorato dalla superstizione religiosa. Allora è lecito chiedersi cosa sarebbe successo se l’impostazione true crime di taglio documentaristico avesse lasciato spazio alla pura finzione cinematografica, perché visto così “Abducted In Plain Sight” risulta fin troppo composto e lineare nel suo svolgimento (a tratti sembra di guardare quei programmi televisivi che puntano i riflettori sulla cronaca nera più torbida). Un riassuntone abbastanza riuscito, incapace però di indagare oltre il solito pappone giornalistico qui ridotto alle consuete verbose interviste di routine.
Una curiosità: una volta adulta, Jan Broberg è diventata attrice (l’abbiamo vista ad esempio nel recente “Maniac” di Franck Khalfoun). Una vita apparentemente normale? Non lo sappiamo, perché c’è qualcosa di irrisolto in questi accadimenti, dei dubbi che ancora oggi fanno paura.
(Paolo Chemnitz)
La banalità del male
"Mi piace"Piace a 1 persona