di Ben Wheatley (Gran Bretagna, 2013)
Sembra che Ben Wheatley abbia sparato le migliori cartucce durante la prima fase della sua carriera, un percorso iniziato con il convincente “Down Terrace” (2009) e poi proseguito con l’ottimo “Kill List” (2011) e il cinico “Sightseers” (2012). Con “A Field In England” (in Italia banalmente intitolato “I Disertori”) si intravede infatti il giro di boa, poiché i successivi “High Rise” (2015) e “Free Fire” (2016) hanno ridimensionato le credenziali di questo regista dell’Essex classe 1972.
Wheatley ha parlato più volte di “A Field In England” come di un prequel di “Kill List”, una dichiarazione da prendere con le molle considerando che l’unico elemento di contatto tra le due pellicole è quel substrato esoterico non sempre codificabile all’istante. Qui la storia è ambientata durante la guerra civile inglese del Seicento: un gruppo composto da alcuni disertori (tra cui un astronomo) fugge attraverso un campo sterminato alla ricerca di una birreria che in realtà non esiste. I quattro uomini finiscono invece tra le mani dell’alchimista O’Neil, per poi essere sfruttati come prigionieri alla ricerca di un fantomatico tesoro nascosto. Una volta atterrati nella seconda parte del film, la sceneggiatura va a farsi benedire perché – complice un’in(di)gestione di funghi allucinogeni – gli eventi prendono una piega delirante, visionaria e psichedelica.
“A Field In England” non è un’opera di facile fruizione, nonostante l’apparente semplicità della messa in scena e del plot: quello di Wheatley è un infatti lavoro pomposo, teatrale, incentrato soprattutto sui dialoghi e sull’immancabile ironia di fondo che contraddistingue le disavventure dei personaggi, un marchio di fabbrica tipicamente british ben riconoscibile (“sooner I get back to fucking London, the fucking better. A new fucking coat. Fucking doors that fucking shout. And citizens that pay small fucking reckoning to astrology. I would rather die of the fucking plague in the fucking fleet than spend another fucking minute in the countryside”). Fin qui tutto bene, anche perché ci si interessa immediatamente al destino dei nostri. In guerra però può accadere di tutto, anche l’impensabile, così ritroviamo i quattro fuggiaschi alle prese con qualcosa di realmente bislacco, un rituale lisergico che chiama in causa persino Jodorowsky (“El Topo” è un’influenza non trascurabile).
La scelta del bianco e nero si rivela azzeccata, Ben Wheatley segue passo dopo passo questo cammino iniziatico mai fine a se stesso, un viaggio sensoriale nel quale ci si perde senza rimpiangere la razionalità e la compiutezza. Perché “A Field In England” è criptico e spesso indecifrabile ed è qui la sua forza. Ci piace questo cinema privo di punti di riferimento, vago ma allo stesso tempo ricco di significati: ci auguriamo che Wheatley ritorni presto sul luogo del delitto, in qualche campagna inglese o magari nel sottobosco criminale più misterioso e angosciante. In fin dei conti, è un regista che ha ancora molto da dire.
(Paolo Chemnitz)