di James Quinn (Austria, 2017)
Da alcuni mesi è nata una certa curiosità attorno a “Flesh Of The Void”, un horror sperimentale presentato da un trailer allucinante nel quale tra immagini sgranate in b/n e una regia di taglio vintage (super8 e 16mm) è possibile farsi un’idea sulle malsane potenzialità di tale pellicola. Presupposti che fanno subito pensare a “Begotten” (1990) e a tutto quel cinema di confine votato all’ermetismo shock. Simboli e significati da leggere tra le righe, cercando di afferrare il messaggio portante lanciato dal regista.
James Quinn (giovanissimo austriaco di Linz nato nel 1995) fonda la Sodom & Chimera Productions per poi dedicarsi a videoclip e cortometraggi: “Flesh Of The Void” è invece il suo primo lavoro sulla lunga distanza, ottanta minuti scarsi in cui – stando alle sue parole – viviamo l’esperienza della morte come la peggiore cosa che ci possa capitare. Tutto ciò è da intendere come un viaggio attraverso le paure più profonde degli esseri umani, esplorate in maniera assolutamente grottesca, violenta ed estrema. Un biglietto da visita interessante, incapace però di spingersi oltre le buone premesse iniziali, anche perché James Quinn dimostra di possedere quell’entusiasmo di un ragazzino traducibile in alcuni casi con la presunzione di chi vorrebbe lasciare un segno indelebile a tutti i costi, come accaduto in passato ad altri registi underground poi diventati di culto. Ingenuità che comunque si possono superare con la crescita.
La strada comincia da qui e non si butta via niente, in fin dei conti “Flesh Of The Void” ha le sue carte da giocare che esulano dalle solite immagini scioccanti programmate senza alcun collante narrativo (un festival di stupri, masturbazioni e mutilazioni). C’è dell’altro infatti e rappresenta un buon auspicio per il futuro di questo regista: le grigie atmosfere industriali, sottolineate da un atroce rumorismo di marca ambient, lasciano intuire che la morte peggiore sia proprio quella che stiamo vivendo oggi su questo pianeta, una fine inquietante che ha del claustrofobico e che si apre a nuovi opprimenti scenari post mortem (“to dying: to pass to physical life”). Un trapasso che incute timore, dove la negazione e l’assenza della vita prendono la forma di un suono distorto o di un incubo senza vie di uscita. Sotto questo punto di vista James Quinn riesce a trasmettere un senso di angoscia codificabile all’istante, complici quelle immagini granulose che trasudano paura e disperazione.
Preso a singoli blocchi, “Flesh Of The Void” può anche funzionare, considerando un discreto lavoro sotto l’aspetto iconografico (le maschere antropomorfe e quel latente substrato satanico) e una certa disinvoltura nella costruzione di un pathos nerissimo. Quello che invece è da rivedere riguarda l’opera nel suo complesso, troppo segmentata e priva di una logica concettuale utile per alimentare la potenza stessa dei significati. Non chiamatela avanguardia, James Quinn non inventa nulla di nuovo, “Flesh Of The Void” è solo un horror estremo che può ammaliare e disgustare allo stesso tempo.
(Paolo Chemnitz)