La Samaritana

la samaritanadi Kim Ki-Duk (Corea del Sud, 2004)

Questa volta il contrasto è ancora più forte, perché dietro una locandina angelica si nasconde l’ennesimo film di Kim Ki-Duk pregno di dolore, di violenza e di morte, un intreccio di sensazioni raccontate sempre con grande sensibilità. “La Samaritana” (“Samaria”) esce pochi mesi prima rispetto all’acclamato “Ferro 3” (2004), chiudendo una stagione trionfale per il regista coreano (il primo film vince l’Orso d’Argento a Berlino, mentre il secondo si aggiudica un meritato Leone d’Argento a Venezia).
Jae-Yeong è una giovane prostituta che sta racimolando dei soldi per pagarsi un viaggio in Europa insieme alla sua migliore amica Yeo-Jin, con la quale condivide un rapporto ambiguo per non dire saffico. Quest’ultima procura i clienti a Jae-Yeong avvertendola nel caso di eventuali retate da parte della polizia: quando il blitz avviene per davvero, la ragazza si getta dalla finestra per sfuggire alla cattura, scatenando una serie di eventi che pongono al centro della nostra attenzione la figura di Yeo-Jin e di suo padre (un poliziotto). Il bianco candore della fanciullezza si macchia così di sangue, di sensi di colpa e di redenzione, un percorso che Kim Ki-Duk segue senza alcun giudizio morale lasciando questi individui in balìa del destino attraverso due strade complementari tra loro (se la figlia è la buona samaritana, nel padre invece si scatena una furia solo in apparenza ingiustificata).
Tolti i primi venti minuti in cui il tono leggero e adolescenziale sembra farla da padrona, “La Samaritana” è un lavoro molto cupo, il quale cresce col il trascorrere del tempo dividendosi in tre capitoli ognuno propedeutico per il successivo. La forza di questo film è da ricercare nei personaggi, caratterizzati con grande attenzione e ben interpretati da un cast veramente affiatato. Ma c’è dell’altro, come il tema della purificazione, dove l’acqua (le scene nei bagni) e il sacrificio tolgono via quelle scorie che hanno segnato negativamente l’esistenza, una vendetta al contrario che illumina una pellicola tra le più originali di quel periodo. Perché nonostante quel ruolo di un padre che si improvvisa carnefice, “La Samaritana” non è un revenge movie nel classico stile coreano ma è un dramma esistenziale in cui la poetica del regista trova nuove e potenti forme di espressione.
Ancora una volta Kim Ki-Duk utilizza il sesso per sondare la miseria umana, la sua meschinità e le sue debolezze, ammantando di tragedia e di malinconia un sentiero astratto che preferisce mostrare il necessario (quello della prostituzione minorile è un argomento scabroso) senza concedere quasi nulla alla spettacolarizzazione: anche per questo motivo “La Samaritana” è una pellicola che colpisce il bersaglio, poiché è capace di mettere a nudo i personaggi senza per forza puntare sul nichilismo tout court (l’epilogo è carico di emozioni e di struggente lirismo, un nero trionfo dell’amore paterno). “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, nulla di più vero in una società dove ogni uomo è consapevole dei propri crimini.

4

(Paolo Chemnitz)

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