Donnybrook

donnybrookdi Tim Sutton (Stati Uniti, 2018)

Tim Sutton è un regista che ama le storie maledette della provincia americana, anche per questo motivo con il precedente “Dark Night” (2016) si era dedicato a un terribile fatto di cronaca accaduto nel 2012 presso un sobborgo di Denver, quando un ventiquattrenne aveva aperto il fuoco all’interno di un cinema uccidendo dodici persone. Questa pellicola, incredibilmente distribuita persino in Italia, non era stata particolarmente apprezzata dal pubblico, al contrario degli elogi da parte della critica. In effetti “Dark Night” non assecondava le morbosità dello spettatore, per concentrarsi invece sulla fase preparatoria al massacro, uno studio minuzioso dei luoghi e degli spazi urbani in realtà molto più affascinante del solito spargimento di sangue.
Con “Donnybrook” Sutton mantiene il medesimo stile asciutto e calibrato, ma allarga l’orizzonte facendo muovere i suoi personaggi in un territorio vasto e indefinito, una terra senza speranza che non ha nulla a che spartire con il sogno americano. Jamie Bell è Jarhead Earl, un uomo sposato (la moglie è tossicodipendente) con due figli e tanta voglia di cambiare aria: la vita nel trailer park è difficile, soprattutto perché da quelle parti si aggira Chainsaw Angus (Frank Grillo), un sadico pusher che minaccia, picchia e uccide chiunque gli faccia uno sgarro. Accanto all’uomo c’è la sorella Delia (Margaret Qualley), spietata come lui (non vi anticipo nulla, c’è una scena pazzesca da guilty pleasure!) ma caratterizzata in maniera molto più interessante rispetto al fratello. Che cosa significa allora il titolo del film? Si riferisce a un incontro clandestino di lotta dove ci sono in palio centomila dollari, un piatto talmente succulento da attirare il nostro protagonista (e non solo).
Una fotografia spaventosamente bella ci catapulta all’interno degli states periferici e dimenticati, dove la desolazione è sia paesaggistica che umana: le armi da fuoco, la violenza più cruda (questa volta Tim Sutton non si tira indietro!), la sete di denaro, ogni occasione è buona per schiacciare il più debole, perché da queste parti sei segnato fin dalla nascita. Combattere o soccombere. In effetti “Donnybrook” è un dramma on the road veramente tetro, il lato sporco di un’America spesso lontana dai riflettori, la stessa America raccontata ad esempio dal nostro Roberto Minervini in “Lousiana: The Other Side” (2015), un egregio docufilm sul tema.
Non bastano però le splendide atmosfere suggerite dall’opera per elevare “Donnybrook” oltre una certa soglia di attenzione: il motivo è semplice, lo script non è fluido e si rischia di andare in tilt specialmente durante i primi venti minuti di visione, quando Sutton butta nella mischia quasi tutti i personaggi senza alcun raziocinio. Alcuni di essi sono addirittura inutili (il poliziotto), altri funzionano a intermittenza, mentre la narrazione prosegue a scatti e in maniera poco armoniosa fino allo scontro finale, tanto scontato quanto efficace. Se lo script di “Donnybrook” fosse capitato nelle mani di Jeremy Saulnier, forse oggi avremmo parlato di un nuovo “Blue Ruin” (2013). Tim Sutton fa tutto e il contrario di tutto, regalandoci un cinema duro e ammaliante ma anche una vicenda non esente da evidenti imperfezioni.

3

(Paolo Chemnitz)

donnyb

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