di Nobuo Nakagawa (Giappone, 1960)
L’inferno può avere mille sembianze, soprattutto nelle sue rappresentazioni cinematografiche. Alcune testimonianze sono rimaste profondamente scolpite nella nostra memoria, pensiamo a “L’Inferno” (1911) del trio Bertolini/Padovan/De Liguoro (dove Dante incontra Gustave Doré), ma non dimentichiamoci del bizzarro cult “Esta Noite Encarnarei No Teu Cadáver” (1967) del brasiliano José Mojica Marins, del diabolico labirinto presente in “Hellbound: Hellraiser II” (1988) o del più recente fumettone “Constantine” (2005), nel quale Keanu Reeves finisce a tu per tu con Lucifero. In Giappone di certo non sono stati a guardare, “Jigoku” è infatti un vero film d’avanguardia destinato a scolpire l’intera cinematografia horror di quel paese, il lavoro più significativo di un regista prolifico e mai banale come Nobuo Nakagawa.
Shirô Shimizu è uno studente universitario prossimo alle nozze: durante una notte, mentre l’uomo è seduto in macchina con l’amico Tamura, avviene un fatto che sconvolge la vita del protagonista e di tutte le persone che gli sono accanto. Tamura investe e uccide un ubriaco (un membro della Yakuza) ma non si ferma per prestare soccorso alla vittima, nonostante Shirô non sia della stessa opinione (“that might ease your conscience, but I’m not interested. It’d be stupid. He was drunk. He ran into the road. It was basically suicide. Besides, he was just some Yakuza scum”). Da questo momento in poi una serie di circostanze più o meno fortuite causano la morte dei vari personaggi, i quali una volta scaraventati all’inferno, sono costretti a patire le pene più atroci per i peccati che ciascuno di essi ha commesso nella vita.
Per analizzare questa pellicola bisogna spaccarla in due parti ben distinte: la prima ora, narrativamente contorta e farraginosa, non offre grandissimi spunti allo spettatore, al contrario degli ultimi quaranta minuti, uno spettacolo per gli occhi nonostante il budget risicato (si racconta che alcuni attori parteciparono all’allestimento delle scenografie dell’inferno proprio per riuscire a completare l’opera, prima che i celebri studi Shin-Toho dichiarassero la bancarotta). Ci dobbiamo quindi soffermare sull’aspetto visionario del film, sorprendente per l’epoca anche per una certa audacia di taglio gore, nel 1960 una peculiarità impensabile persino dall’altra parte dell’oceano. Il forte contrasto tra le luci sparate sugli attori e il campo buio che occupa il resto dello schermo è il teatro lisergico di Nobuo Nakagawa, un delirio cromatico che si fonde con le torture e le vessazioni a cui sono sottoposti i vari malcapitati. Un inferno ovviamente di marca buddista, dove il karma agisce fino a quando non viene restituito indietro tutto il male che è stato fatto durante la vita.
Se Mario Bava fosse nato in Giappone, il suo sguardo tra le viscere della Terra sarebbe stato molto simile a quello di Nakagawa, non sono pochi infatti i punti in comune nell’estetica dei due registi ed è un peccato che “Jigoku” prenda il volo soltanto nella seconda parte, quando il surrealismo più ammaliante ci trascina all’interno di un quadro tra i più belli mai visti in quel periodo. Lasciate perdere i vari remake, di “Jigoku” ce n’è uno solo ed è quello del 1960, un film che non ha bisogno di intricate interpretazioni filosofiche davanti alle semplici ma crudeli punizioni che spettano ai peccatori. Una pellicola avanti anni luce.
(Paolo Chemnitz)