di Nicolas Winding Refn (Stati Uniti, 2011)
Se gli anni dieci di questo secolo saranno cinematograficamente ricordati per un ritorno alle atmosfere metropolitane al neon accompagnate dalla musica synthwave di taglio 80s, un film come “Drive” ha molti meriti al riguardo. Nicolas Winding Refn, due anni dopo il minimalismo ermetico di “Valhalla Rising” (2009), qui apre un nuovo ciclo poi proseguito con “Solo Dio Perdona” (2013) e “The Neon Demon” (2016), tutte pellicole esteticamente inattaccabili e al limite dell’autocompiacimento (motivo per il quale oggi Refn ha tantissimi ammiratori e qualche convinto detrattore). “Drive” è basato sull’omonimo romanzo di Joe Sallis ma le sue radici partono da molto lontano, il regista danese infatti riprende in mano le coordinate principali già viste in “Driver, L’Imprendibile” (1978) di Walter Hill mescolandole con alcune suggestioni notturne ammirate nelle opere di Michael Mann (pensiamo alla fotografia di “Strade Violente”), ricoprendo però il tutto con un velo sognante, onirico, persino melodrammatico, perché “Drive” non è soltanto action ma è molto di più.
Ryan Gosling non ha un nome, è lui il driver con la doppia vita: di giorno lavora come meccanico e come stuntman cinematografico, di notte invece sfreccia con l’automobile per le strade di Los Angeles prestando servizio per i vari rapinatori che di volta in volta lo assoldano (“there’s a hundred-thousand streets in this city. You don’t need to know the route. You give me a time and a place, I give you a five minute window. Anything happens in that five minutes and I’m yours. No matter what. Anything happens a minute either side of that and you’re on your own. Do you understand?”). Nel suo palazzo vive una ragazza di nome Irene (Carey Mulligan) con il figlio Benicio, una donna rimasta sola in attesa che il marito sia scarcerato. Il protagonista e Irene iniziano a frequentarsi, ma l’uscita di prigione di Standard mette in moto una catena di eventi in cui è coinvolta la criminalità organizzata della città, dando vita a una scia di sangue che non risparmia nessuno.
Le atmosfere sospese in cui si muovono questi personaggi sono la vera forza di “Drive”, un film che trasuda magia da ogni fotogramma: Refn non sfrutta soltanto le sue doti tecniche (meritato il premio per la regia a Cannes), ma è capace di plasmare con grande credibilità tutti gli interpreti dell’opera. Driver è timido e taciturno, una sorta di supereroe dietro al volante che davanti a Irene si imbarazza quasi come un bambino, sempre con quello stuzzicadenti tra le labbra (un’idea che il regista riprese dal Sylvester Stallone di “Cobra”) e con l’aria di chi osserva con distacco ciò che accade attorno. Una caratterizzazione formidabile, che ben si integra con quella dei comprimari (Bryan Cranston è un ottimo Shannon, notevole anche Albert Brooks nei panni del gangster) e con quello spirito da puro cinema noir contemporaneo, curatissimo in ogni minimo particolare.
La colonna sonora del film è qualcosa di speciale: oltre al lavoro del solito Cliff Martinez, possiamo ascoltare alcuni magnifici pezzi di Kavinsky, Chromatics e College (insieme a Electric Youth), per un tuffo nel passato di marca retrowave che diventerà una costante durante gli anni successivi (quanta nostalgia nel suono analogico dei synth!). Infine, è importante rimarcare la violenza presente in “Drive”, improvvisa e crudele addirittura più del dovuto rispetto alle intenzioni della pellicola (pensiamo alla famosa scena nell’ascensore, che racchiude in un sol colpo dolcezza e brutalità). Su questo aspetto Nicolas Winding Refn è stato chiaro: “realizzare un film è un atto di violenza, si tratta di infondere delle emozioni negli spettatori, lasciarle con loro il più possibile e poi viaggiare con loro per sempre”, una presa di posizione che è un leitmotiv nel cinema di questo affermato regista danese, con “Drive” consacratosi definitivamente al successo su scala mondiale. Eccelso.
(Paolo Chemnitz)
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
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