di Lars Von Trier (Danimarca/Francia, 2018)
La censura è un’arma a doppio taglio. Insulta e svilisce il lavoro di un regista ma allo stesso tempo riesce ad attirare ancora di più l’attenzione del pubblico, aumentando la curiosità attorno al prodotto incriminato. “The House That Jack Built” (preferiamo mantenere il titolo originale rispetto alla banale semplificazione “La Casa Di Jack”) finalmente è arrivato in Italia ma non è stata un’uscita come tante altre: il distributore ha annunciato ben due versioni – entrambe vietate ai minori di diciotto anni – la prima delle quali doppiata e censurata mentre la seconda in lingua originale e assolutamente uncut. Abbiamo avuto la fortuna di gustarci la tanto attesa edizione integrale, in realtà neppure due minuti in più rispetto al film che hanno già visto in molti, eppure nel cinema pochi secondi segati rappresentano un’eternità, un vero abisso, soprattutto se in gioco c’è qualche immagine controversa, estrema, sconvolgente. Quello che accade esattamente nel nuovo lungometraggio di Lars Von Trier.
Un superlativo Matt Dillon è Jack, un serial killer 2.0. Non il solito psicopatico rappresentato essenzialmente per le sue azioni ripugnanti o ripreso nel marciume della sua abitazione, perché Jack è Mr. Sophistication, un ingegnere con tendenze ossessivo-compulsive dotato di grande intelligenza. La storia si sofferma su cinque episodi della vita del protagonista, una divisione in capitoli che ci ricorda la genesi del progetto, inizialmente pensato come una serie televisiva. Von Trier però amalgama alla perfezione questi segmenti, legando i vari omicidi con un filo invisibile che ritorna prepotentemente negli ambienti o nel modus operandi di Jack, capace di portare a termine le sue missioni con una invidiabile astuzia e nonchalance. Potremmo definire ogni singolo frammento di “The House That Jack Built” con una parola: il primo è divertente (una logorroica e odiosa Uma Thurman fa di tutto per scatenare la furia di Jack), il secondo è beffardo, il terzo è irriverente, il quarto è misogino e infine l’ultimo episodio tende al perfezionismo, anche se si conclude in maniera diversa rispetto ai precedenti, trascinandoci dentro un sorprendente epilogo che riporta a galla il simbolismo di “Antichrist” (2009), oltre a dare spazio al compianto Bruno Ganz (nel ruolo virgiliano di Verge), qui in una delle sue ultime apparizioni cinematografiche.
L’impulso di uccidere ci viene spiegato dalla brillante teoria dei lampioni e delle ombre: una miscela esplosiva di dolore e di piacere che Jack ha ciclicamente bisogno di rinnovare, una sorta di crisi di astinenza che nel protagonista diventa una necessità mentale, non fisica (come invece per la dose di eroina del tossico). Dopotutto il film di Lars Von Trier è un viaggio nella psiche di un individuo illuminato, nel cui arco vitale l’omicidio equivale a un’opera d’arte assoluta (“the old cathedrals often have sublime artworks hidden away in the darkest corners for only God to see. The same goes for murder”). Proprio il binomio tra arte e morte incarna il concetto portante che attraversa queste due ore e mezza di visione, un geniale delirio che travalica con ogni mezzo la bassezza, l’inutilità e la stupidità dei molti appartenenti al genere umano: coincidenza vuole che anche in questo caso la censura sia un limite (sia per l’artista che per l’uomo stesso), non a caso le riflessioni presenti in “The House That Jack Built” tendono spesso a focalizzarsi su questa prospettiva esistenziale volta al superamento della propria condizione per mezzo dell’ingegno e della creatività. Non è da trascurare neppure la metafora legata al nazismo, forse l’aspetto più controverso dell’opera, in quanto il sadismo di Jack non è poi così dissimile dalle inquietanti e diaboliche sirene che si azionavano nei celebri aerei da guerra Stuka per incutere timore al nemico (“more than a masterpiece. An icon”). Il male definitivo studiato nei minimi particolari, un obiettivo che implica ossessione e paranoia (la costruzione della casa, le ipotetiche macchie di sangue da cancellare, la ricerca a tutti i costi del proiettile incamiciato).
Infine bisogna rimarcare la violenza estrema di “The House That Jack Built”, un lavoro che già nella versione tagliata abbatte con veemenza molti dei tabù intoccabili del cinema politically correct: la scena del picnic (dove sono presenti due bambini) offre un massacro senza precedenti (l’edizione integrale indugia su alcuni particolari truculenti), ma non è da meno la sequenza del seno reciso (anch’essa censurata nelle copie in italiano), immagini shock che sottolineano l’onnipotenza di un prodotto che può davvero permettersi di tutto. Von Trier finalmente ci sbatte in faccia un serial killer diverso, di quelli in cui è possibile persino identificarsi. Non c’è differenza tra inferno e paradiso, Jack è libero da ogni costrizione, è un Übermensch e noi lo amiamo soprattutto per questo elogio del sé estatico e creativo.
(Paolo Chemnitz)