di Alex Van Warmerdam (Olanda/Belgio, 2013)
Negli ultimi anni sono stati scomodati molti termini di paragone per descrivere “Borgman”: è stato tirato in mezzo il cinema di Michael Haneke, quello di Yorgos Lanthimos e ovviamente “Teorema” (1968) di Pier Paolo Pasolini, di cui “Borgman” rappresenta l’ennesimo moderno diversivo. In realtà, dopo una seconda accurata visione, non possiamo che confermare quanto già scritto in passato in separata sede, ridimensionando in qualche modo l’eccesso di entusiasmo che si è creato attorno al film. Quello di Alex Van Warmerdam è infatti un lavoro ricco di spunti interessanti ma alquanto artificioso nella costruzione degli stessi, un’opera che spara molte cartucce, alcune delle quali purtroppo a salve.
Il mattatore assoluto della pellicola è Jan Bijvoet, uno scricciolo umano che successivamente abbiamo ammirato in “El Abrazo De La Serpiente” (2015) e “D’Ardennen” (2015). È lui Borgman, un diabolico clochard messo subito in contrapposizione con una famiglia benestante immersa nel materialismo di un ricco quartiere residenziale. Egli rappresenta il diverso che vive di espedienti (le piccole dimore nel sottosuolo), un individuo rifiutato e persino malmenato dal momento in cui si presenta alla porta delle alte sfere borghesi chiedendo ospitalità. In questo nucleo familiare le cose però non filano alla perfezione, nonostante l’apparenza possa far pensare al contrario: quale miglior luogo per far attecchire i semi del male? Borgman diventa quindi l’intruso che genera scompiglio, l’elemento perturbante che si manifesta all’improvviso accovacciato sul letto della madre dormiente, proprio come in un incubo (quello ripreso dal celebre quadro di Johann Heinrich Füssli).
Il regista olandese – qui comunque alla sua prova più convincente (tra le ultime che abbiamo visto) – mescola molti elementi di taglio ora drammatico ora grottesco (si passa in un attimo da un irriverente black humour al sadismo più violento), deviando fin dal principio su una forte componente simbolica che a un certo punto si sostituisce praticamente alla sceneggiatura stessa, abbastanza contorta e non di facile assimilazione, complici quei silenzi che vorrebbero raccontare attraverso le sole immagini mostrate sullo schermo. Questa ambiziosa struttura tende a perdere di intensità nella seconda parte del film, tirata eccessivamente per le lunghe anche per colpa di un minutaggio esagerato (si sfiorano le due ore di durata). Per fortuna, il risultato complessivo resta a galla grazie a una manciata di situazioni piuttosto bizzarre e ben girate (buona la regia), come quando alcuni malcapitati vengono ammazzati e infilati con la testa in un secchio di calce, per poi essere buttati in fondo a un lago.
La metafora messa in scena da Alex Van Warmerdam muove una critica non troppo velata al mondo della borghesia, considerato discriminatorio, razzista e ovviamente ipocrita: un ragionamento a scompartimenti nel quale gli ambienti asettici in cui vivono queste persone vengono posti in completa antitesi agli sporchi cunicoli sotterranei da cui sbucano gli emarginati sociali. Fin qui tutto bene, ma i paragoni con i vari Haneke e Lanthimos ci sembrano esagerati, visto che in “Borgman” il regista sfoggia anche un certo narcisismo autoriale non proprio funzionale alla causa.
(Paolo Chemnitz)
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
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