di Lee Chang-Dong (Corea del Sud, 2018)
Tra i possibili candidati all’Oscar 2019 nella categoria per il miglior film straniero, c’è anche “Burning”, già entrato tra i nove titoli prescelti nella selezione preliminare. Sarà però difficile vincere la statuetta, considerando che nella stessa competizione ci sono in gara registi come Alfonso Cuarón e Paweł Pawlikowski (due nomi che a Hollywood piacciono tanto), ma una cosa è certa, “Burning” è un’opera meravigliosa nonché una delle migliori pellicole coreane viste negli ultimi tempi. Un lavoro che prende ispirazione da un breve racconto di Haruki Murakami (“Barn Burning”), mettendo al centro delle vicende tre personaggi, ognuno dei quali equidistante dall’altro esattamente come i vertici di un triangolo equilatero.
Durante una consegna, il giovane Jong-Su incontra casualmente una ragazza (Hae-Mi) che in passato viveva nel suo stesso paese: la donna seduce l’uomo portandoselo a letto nel giro di poche ore, ma Hae-Mi è in partenza per un viaggio in Africa, così chiede a Jong-Su se nel frattempo egli può recarsi nel suo appartamento per dare da mangiare al gatto. Tornata dal continente nero, la ragazza non è sola, con lei c’è un tipo piuttosto snob di nome Ben, un belloccio impaccato di soldi che gira con la Porsche. Da questo momento la storia si concentra sul rapporto che si sviluppa tra i tre individui, con il timido e impacciato Jong-Su innamorato della svampita e opportunista Hae-Mi, a sua volta affascinata dal ricco Ben, un giovane che nasconde uno strano quanto inquietante segreto.
Il regista Lee Chang-Dong (per lui un gradito ritorno dopo ben otto anni di attesa), già acclamato a Cannes dalla critica, dirige un film quadrato ed essenziale che si risolve come un’equazione matematica: l’equilibrio che si crea tra i personaggi è impeccabile e attraverso una lenta ma sinuosa costruzione narrativa atterriamo su una parte finale incredibile, dove si completa il vicendevole annientamento delle tre pedine. Niente però ci viene spiegato, perché in “Burning” molti elementi restano volutamente sfocati (Jong-Su è uno scrittore ma non ha mai scritto un libro, Hae-Mi ha un passato nebuloso di cui sappiamo pochissimo, la quotidianità di Ben cela degli oscuri misteri). Un’intera generazione avvolta dalle fiamme, nonostante la netta divisione tra classi sociali messa in luce dal regista coreano, una scala di valori che contempla ambienti e luoghi molto diversi tra loro (il ricco quartiere cittadino e le zone rurali vicine al confine con la Corea del Nord).
Lui, lei, l’altro, il numero tre non è mai stato così perfetto: sono tre anche gli aspetti che delineano il film, uno prettamente drammatico, un secondo di taglio thriller e un terzo non troppo distante dalle dinamiche del mystery movie. All’interno di questo triangolo c’è il punto di incontro dove tutto acquisisce un significato, lasciando diradare la nebbia accumulata durante le due ore e mezza di visione. Anche se alcuni dubbi materiali restano ed è giusto che sia così, perché la formula di “Burning” è quanto di più lontano dal didascalismo che piace al pubblico mainstream. Inoltre bisogna tributare un sincero plauso agli attori (eccellente Yoo Ah-In nel ruolo di Jong-Su), talmente partecipi con le loro emozioni contrastanti da creare delle scintille continue, un alone di negatività in cui sprofondiamo alla ricerca di una verità apparentemente vicina ma in realtà inafferrabile. Quello di Lee Chang-Dong è un film spaventosamente bello che si stampa a fondo nella mente, una geometria della crudeltà che scolpisce forme e figure nel presente di una nazione ancora piena di contraddizioni (c’è posto per le donne? Sembra proprio di no). Il cinema coreano ai massimi livelli, non potevamo chiedere di meglio.
(Paolo Chemnitz)