di Dario Argento (Italia, 1987)
L’inizio della fine o la fine dell’inizio? “Opera” è considerata da tempo una pellicola spartiacque all’interno della carriera di Dario Argento, un regista impeccabile o quasi fino al termine degli anni ottanta ma poi praticamente irriconoscibile dal 1993 (l’anno di “Trauma”) fino ai giorni nostri, se escludiamo il passabile “Non Ho Sonno” (2001). Che in “Opera” si avvertano alcuni scricchiolii non ci sono dubbi, ma bisogna subito chiarire che il film in questione rappresenta uno degli apici registici di Argento, un lavoro tecnicamente sublime che purtroppo paga qualche incertezza nella sceneggiatura e nella recitazione degli interpreti.
Betty (Cristina Marsillach) è un soprano esordiente che deve prendere il posto di una più celebre e anziana collega alla vigilia della prima del Macbeth di Giuseppe Verdi, che nell’ambiente dell’opera si dice porti sfortuna. Questi brutti presentimenti si materializzano con l’omicidio di una maschera durante lo spettacolo e successivamente con una serie di brutali uccisioni che turbano sempre di più la protagonista. Forse soltanto i corvi utilizzati per la rappresentazione possono scovare il killer, una figura con un passato tormentato che si nasconde proprio in quel teatro.
Dario Argento, fin dal primissimo piano sequenza, ci lascia sbalorditi: “Opera” è un film girato quasi tutto nel Teatro Regio di Parma, una pellicola che sfrutta a pieno ogni ambiente possibile attraverso carrellate, soggettive e inquadrature capaci di elevare al massimo la potenza evocativa di quel luogo. Ma il fascino di questo thriller è da ricercare anche nella crudeltà dei vari omicidi, tra i migliori messi in scena nella lunga carriera del regista romano (con Sergio Stivaletti agli effetti in stato di grazia). L’immagine di Betty legata a una colonna e costretta ad assistere ai gesti sconsiderati dello psicopatico è altamente simbolica, perché quelle palpebre tenute aperte con gli spilli ci costringono a guardare insieme a lei cosa sta accadendo: gli occhi sono infatti un leitmotiv del film e ritornano più volte attraverso l’immagine della ragazza, degli uccelli (nei cui occhi si riflette tutta la platea), nell’omicidio con il proiettile (sequenza indimenticabile) e persino nell’epilogo all’interno del teatro, quando proprio i corvi individuano il colpevole.
Tutti i motivi succitati rendono “Opera” un lavoro assolutamente valido, nonostante questa bellezza formale non sia accompagnata da uno script altrettanto adeguato, soprattutto quando nella seconda parte della pellicola la storia tende a sfilacciarsi un po’, incluso quel doppio finale curiosamente ambientato in Svizzera (autocitazione per “Phenomena”) che allunga il brodo senza creare ulteriori sussulti. Nel cast Daria Nicolodi nei panni di Mira risulta il volto più convincente, mentre per quanto concerne la colonna sonora stride non poco la scelta di accostare la quasi onnipresente musica lirica con qualche schitarrata heavy metal. Una cosa comunque è certa, Dario Argento con “Opera” modella la sua creatura più elegante e sinuosa, a discapito di una struttura narrativa messa volutamente in secondo piano: cinema al servizio di uno dei cinque sensi, la vista, uno stimolo perennemente sollecitato sia nello spettatore che nei protagonisti. Perché gli occhi sono l’anticamera del terrore che in ogni momento può manifestarsi davanti a noi, dopotutto basta uno sguardo per riconoscere la morte in un istante.
(Paolo Chemnitz)