di Heidi Ewing e Rachel Grady (Stati Uniti, 2006)
“Jesus Camp” è un documentario di quelli che fanno male. In questi novanta minuti scarsi è racchiuso il punto di vista (imparziale) di Heidi Ewing e Rachel Grady, due registe che hanno raccontato con la loro mdp la vita di un campo estivo pentacostale per bambini. Il lato oscuro di un’America che corre a marcia indietro, combattendo l’aborto e discriminando tutto ciò che è ritenuto peccato. Chi trascorre l’estate in questa struttura del North Dakota può mettere in pratica il cosiddetto dono profetico, a cui si somma un insegnamento volto a restituire gli Stati Uniti a Gesù Cristo. One Nation Under God.
La pellicola si focalizza su alcuni bambini in particolare (uno di questi, Levi, già recita degli inquietanti sermoni davanti al pubblico) ma soprattutto sulla figura di Becky Fischer, la donna che gestisce il campo: per lei è necessario formare nuovi soldati per far sì che l’esercito di dio possa contrastare il male imperante nella nazione. “Jesus Camp” è scioccante dal momento in cui vediamo coinvolti dei ragazzini di neppure dieci anni, manipolati fin da piccoli e praticamente succubi di una violenza psicologica che opprime la loro individualità, la loro creatività e la loro futura indipendenza. Sono gli anni in cui il presidente è George W. Bush, la cui sagoma di cartone diventa una specie di santo da venerare: non appena appare sul palco, i bambini la benedicono alzando le mani in cielo, una situazione spiazzante che lascia piuttosto interdetti ma che sottolinea quanto l’aspetto di indottrinamento politico sia forse più importante di quello religioso. Purtroppo non solo queste persone respirano il nostro stesso ossigeno – ma ancora peggio – spesso hanno delle posizioni di potere che possono decidere il destino delle nuove generazioni, in questo caso attraverso un vero e proprio lavaggio del cervello.
“Jesus Camp” può essere tranquillamente definito un horror, proprio perché è capace di disgustare molto di più rispetto a tante altre opere di finzione. Osservare una piccola creatura che piange mentre declama l’ennesima preghiera è una scena che pietrifica i nostri occhi, così come hanno del macabro quei modellini di feti umani mostrati ai bambini per convincerli a combattere chi è a favore dell’aborto. Immagini potenti, dolorose e prive di ogni senso. A distanza di oltre dieci anni dal film, ci si chiede che fine abbiano fatto questi giovani: avranno seguito le orme dei loro genitori oppure si saranno ribellati prendendo una strada completamente opposta a ciò che è stato insegnato loro? A volte il rigetto delle imposizioni può essere la logica conseguenza di azioni coercitive, ma vista la giovanissima età dei bambini e la loro (apparente) serenità durante le funzioni di gruppo, non è chiaro se il presunto danno psicologico sia reversibile o meno. Però tutto questo fa paura.
Heidi Ewing e Rachel Grady non si schierano e fanno bene, siamo noi a dover giudicare quello che accade in “Jesus Camp”: un fanatismo che identifica lo stato con una legge divina pronta a manifestarsi contro un nemico invisibile da combattere quotidianamente. Guardare un documentario del genere è come dare il colpo di grazia definitivo alla fiducia nel genere umano.
(Paolo Chemnitz)
La realtà è spesso più inquietante della finzione
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