La Ballata Di Buster Scruggs

la ballata Copiadi Ethan Coen e Joel Coen (Stati Uniti, 2018)

“La Ballata Di Buster Scruggs” (“The Ballad Of Buster Scruggs”) chiude e allo stesso tempo apre una nuova pagina nella carriera dei fratelli Coen: il film infatti prende ispirazione da una serie di racconti elaborati dai registi nell’arco degli ultimi venticinque anni (eccetto uno scritto da Jack London), sei storie di frontiera che rivangano nel passato dell’America e che forse escono nel decennio giusto, proprio quando il cinema western ha ripreso a girare a pieno regime. Un genere intramontabile, con il quale prima o poi ogni regista innamorato di queste suggestioni è destinato a confrontarsi. Ma per i Coen (non nuovi a questo tipo di esperienze) “La Ballata Di Buster Scruggs” è anche un passo in avanti verso qualcosa di assolutamente inedito, a cominciare dalla distribuzione Netflix che al momento bypassa quella sul grande schermo (almeno in Italia), una scelta consequenziale alla struttura stessa dell’opera, da gustare praticamente come una miniserie in sei puntate (alcune più lunghe, altre molto brevi). Inoltre si tratta del loro primo lavoro realizzato in digitale, con un risultato fin troppo pulito ma comunque efficace.
Ethan e Joel Coen dirigono un film in apparenza disomogeneo e slegato, eppure con un messaggio di fondo ben visibile connesso alla morte e alla fatalità del destino. Il primo episodio, praticamente un musical bagnato nel sangue, ne è la prova più evidente: il caratterista Tim Blake Nelson interpreta un pistolero molto sicuro di sé, un personaggio furbo e divertente che conosce come le sue tasche le regole del gioco (la morte arriva anche per chi è sempre riuscito a sbeffeggiarla). Stesso identico discorso per il secondo breve frammento, dove James Franco finisce impiccato per ben due volte, in una storia beffarda ma intrisa di black humour, perché bisogna sempre ridere in faccia al triste mietitore. Con il terzo cortometraggio i Coen si muovono verso lidi più drammatici: durante un freddo inverno, un uomo si spinge con il suo carro nei vari villaggi per presentare il suo spettacolo, dove il protagonista è un povero torso umano che di volta in volta recita dei versi per il pubblico. Quando gli affari non vanno più per il verso giusto, il mutilato viene prontamente sostituito da un’altra attrazione. La morte in questo caso non è mostrata ma la possiamo immaginare, un tragico epilogo che si allaccia prontamente alla tematica del freak come fenomeno da baraccone usa e getta. Il quarto episodio del film è una sorta di dialogo tra la natura e un cercatore d’oro, dove quest’ultimo è interpretato da un vecchio e solitario Tom Waits immerso in una cornice fantastica alla ricerca di qualche pepita accanto a un torrente. Un racconto semplice ma fortemente simbolico, soprattutto per l’imprevedibile svolta conclusiva (una costante del film che conferma l’ottimo script generale, dopotutto “La Ballata Di Buster Scruggs” ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Venezia). Il quinto frammento è il più lungo e arzigogolato, con un intreccio melodrammatico meno coinvolgente del previsto e una carovana che parte per l’Oregon affrontando imprevisti di ogni tipo. L’unico passaggio a vuoto di una pellicola che si risolleva nel finale, con uno scambio di battute all’interno di una diligenza che riassume (attraverso dialoghi tutt’altro che banali) l’indagine dei Coen messa in scena nei cinque episodi precedenti. Un epilogo dai tratti oscuri e surreali (l’arrivo nell’hotel) che suggella un’opera assolutamente valida nonostante la netta divisione in sei parti, poco digeribile se affrontata con pregiudizio.
Lo scenario western si presta alla perfezione per racchiudere queste esistenze che si barcamenano in bilico tra la vita e la morte, una filosofia crepuscolare che forse oggi avrebbe potuto raccontarci impeccabilmente Sam Peckinpah (non a caso, nel suo bellissimo “La Ballata Di Cable Hogue” del 1970, il protagonista conosce un destino beffardo quanto crudele). I Coen aggiungono al piatto una forte componente ironica che stride con l’epica western tout court (qui completamente assente), poiché qui la frontiera è soltanto uno strumento per arrivare nel cuore dei personaggi, unici mattatori di un’opera non imprescindibile ma altamente convincente.

4

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