Trash – I Rifiuti Di New York

trashdi Paul Morrissey (Stati Uniti, 1970)

“Trash – I Rifiuti Di New York” è il secondo film di una trilogia prodotta da Andy Warhol che comprende anche “Flesh” (1968) e “Heat” (1972). Alla regia troviamo Paul Morrissey, personaggio chiave della factory warholiana (già a suo tempo manager ufficiale dei Velvet Underground). Il successo in ambito underground raccolto da Paul Morrissey si può certamente attribuire al connubio vincente tra lui e Joe Dallesandro, attore/modello feticcio presente in tutti e tre i lavori e molto conosciuto per la sua vita controversa (egli aveva sperimentato ogni tipo di eccesso, tra droga, prostituzione e pornografia).
“Trash” racconta la storia di Joe, un tossicodipendente ormai ridotto all’impotenza sessuale: mentre lui ritorna in strada a caccia di soldi (ogni incontro con le donne si rivela un fallimento), la sua compagna Holly (in realtà un travestito) prova a fingere di essere incinta in modo tale da poter circuire un uomo per ottenere un sussidio economico. Un bel quadretto degradante che in maniera circolare torna sempre al punto di partenza, Morrissey infatti rinuncia alla narrazione lavorando sui personaggi come se fossero i protagonisti di un documentario. La telecamera del regista non arretra davanti a nulla, perché la spazzatura umana di New York è ancora più credibile se messa completamente a nudo, motivo per il quale vediamo Joe Dallesandro senza veli e persino con un ago infilato nel braccio (in Italia la censura si scatenò a dovere, definendo il film osceno e offensivo del buon costume).
Rispetto al precedente “Flesh”, questo secondo tassello risulta più artefatto e costruito del previsto, nonostante l’ingenua (ma spontanea) recitazione dei vari personaggi sia ben supportata da dialoghi piuttosto stimolanti (“accidenti, voi drogati non vi interessate a niente: non vi piace fare l’amore, non vi piace prendere moglie, non vi piace fare bambini, non vi piacciono i cibi sani, non vi piacciono le piante da duecento dollari, alla vita non chiedete altro che un pizzico di droga”). Curiosamente la versione italiana (curata all’epoca da Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini) rinunciò di proposito a doppiatori professionisti, quasi a voler sottolineare la bontà stradaiola delle figure che si avvicendano sullo schermo, un realismo che ben si sposa con un’apparente improvvisazione (la voce di Dallesandro non è poi così diversa da quella di certi borgatari pasoliniani). “Trash” però – più che assecondare il passato – anticipa con tutte le differenze del caso alcune pellicole che vedremo dopo molti anni sullo schermo, da “The Driller Killer” (1979) di Abel Ferrara fino al nostro “Amore Tossico” (1983).
Con qualche piccolo taglio questo “Trash” sarebbe stato più fruibile, perché oltre cento minuti di durata non sono certo pochi per un film che in realtà non ha molto da raccontare: ma per i cultori del binomio Morrissey/Dallesandro l’opera in esame è praticamente indispensabile. Un compendio di squallore e sopravvivenza metropolitana.

3

(Paolo Chemnitz)

trash1

 

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