di David Gordon Green (Stati Uniti, 2018)
L’idea di realizzare un sequel diretto a distanza di quarant’anni dal primo storico “Halloween” (1978) è stata la migliore mossa strategica che si potesse fare. Come per dire, questo è l’unico vero film che riprende in mano le redini della vicenda originale, senza mediocri cadute di tono, fantasiose deviazioni sul tema o nuove derive rilette con una lente del tutto diversa (pensiamo ai due “Halloween” di Rob Zombie). Di questi tempi solo la Blumhouse Productions poteva rimettere in sesto il motore principale, piazzando alla regia il relativamente giovane ma già esperto David Gordon Green e richiamando più elementi possibili della vecchia guardia, da Jamie Lee Curtis (ovviamente nei panni di Laurie Strode) fino a John Carpenter, qui nelle vesti di produttore esecutivo oltre che autore della sempreverde colonna sonora (riproposta in versione 2.0).
Quattro decenni dopo i tragici eventi di Haddonfield, due giornalisti si recano in un carcere di massima sicurezza per intervistare Michael Myers, il quale si rivela restio a interagire con gli ospiti: non va a buon fine neppure il tentativo di approcciare Laurie Strode, unica sopravvissuta al massacro nella notte di Halloween del 1978, una donna oggi con due matrimoni falliti alle spalle e una figlia di cui ha perso la custodia. Durante un trasferimento, l’autobus che trasporta alcuni detenuti ha un incidente e Myers riesce a fuggire, una situazione non troppo dissimile da quanto era accaduto in “Halloween 4” (1988), dove lo psicopatico era tornato in libertà mentre era a bordo di un’ambulanza. Una volta in città, Myers inizia a vagare proprio la notte del 31 ottobre, uccidendo diverse persone e preparandosi a sfidare a distanza di tanto tempo l’indomita e carismatica Laurie (“I always knew he’d come back. In this town, Michael Myers is a myth. He’s the Boogeyman. A ghost story to scare kids. But this Boogeyman is real, an evil like his never stops, it just grows older. Darker. More determined”).
L’opera di David Gordon Green evita di caricarsi sulle spalle qualche rischio di troppo, rivelandosi fin troppo lineare nella narrazione. Dopo un discreto incipit, la fase preparatoria (diurna) ci accompagna lentamente verso gli ultimi quaranta minuti di visione, decisamente serrati e intrisi di sangue e violenza. Ciò però non significa automaticamente che “Halloween” sia un film capace di generare tensione, anzi è proprio questo aspetto a rivelarsi non eccessivamente curato. Eppure Myers – archetipo incontrastato del Male assoluto – farebbe pensare il contrario: se però nel 1978 questo modello era anche al servizio di un genere (lo slasher) che sarebbe esploso da lì a poco, nel 2018 la presenza oscura di questo uomo nero si rivela più terrena e meno inquietante del previsto. Green, assimilata a dovere la lezione di Carpenter, studia minuziosamente i movimenti dell’assassino grazie a un buon lavoro dietro la mdp, ma sottovaluta gli aspetti più subdoli della sua presenza, ovvero quel senso di assedio che percorreva le strade notturne della vecchia Huddonfield. Una gelida sensazione qui non pervenuta. Questo sequel quindi, seppur genuino e per nulla artefatto rispetto alle premesse, non possiede quella magia tipica di un prodotto destinato a entrare nella storia.
Di contro sia Michael Myers che la figura di Laurie Strode risultano molto convincenti, a discapito di tutti gli altri personaggi di contorno, piuttosto superflui se non inutili (si sente tanto la mancanza di un terzo elemento basilare come il compianto Donald Pleasence, il Dottor Loomis dei tempi andati). Ma non siamo qui a fare confronti impossibili tra un capolavoro del cinema horror e un sequel pensato per spazzare via tutto quello che era stato partorito negli ultimi quarant’anni, una scelta delicata e comunque efficace (il ritorno economico è assicurato), capace di riprendere per mano gli appassionati della saga che troppo tempo hanno atteso per rivedere un film almeno decente (i due lavori di Rob Zombie fanno storia a sé). Ecco perché il nuovo “Halloween” non è assolutamente da buttare via, considerando che si poteva soltanto fare di peggio: un lavoro semplice e onesto, forse più indicato alle nuove generazioni che alle vecchie, ma almeno godibile fino in fondo.
(Paolo Chemnitz)