Paradise: Faith

paradisedi Ulrich Seidl (Austria/Germania, 2012)

“Paradise: Faith” (“Paradies: Glaube”) è il secondo capitolo della trilogia amore fede speranza di Ulrich Seidl, originariamente pensata come un film unico diviso in tre parti. Premio speciale della giuria a Venezia nel 2012, “Paradise: Faith” è un lavoro che tocca da vicino i cambiamenti sociali di un paese come l’Austria, stravolto politicamente dall’avanzata dell’estrema destra nel corso degli ultimi anni. Integralismo religioso e paura del diverso, tematiche affrontate da Seidl con il consueto distacco al limite del documentaristico e con uno spirito più impegnato rispetto allo strepitoso “Paradise: Love” (2012) e al meno ispirato (ma pur sempre valido) “Paradise: Hope” (2013).
Anna Maria (Maria Hofstätter) è la sorella di Teresa (la protagonista del primo tassello della trilogia, partita per il Kenya a caccia di uomini). Entrambe condividono la solitudine e come due facce della stessa medaglia si sfogano in maniera completamente opposta: se Teresa infatti è in cerca di edonismo e di futili distrazioni, Anna Maria è una cattolica convinta che pratica l’autoflagellazione per redimersi da ogni peccato. Inoltre, la donna tutti i giorni bussa alle porte della gente tenendo con sé una statuetta della Madonna (in modo tale che ognuno possa adorarla), scontrandosi però con la diffidenza e con le posizioni meno dure degli altri abitanti del quartiere. Quando – dopo una lunghissima assenza – nell’abitazione della protagonista fa ritorno il marito egiziano Nabil (musulmano e paralizzato alle gambe), il rapporto tra i due degenera in uno scontro continuo che mette a dura prova la tranquillità quotidiana della signora.
Ulrich Seidl esplora di continuo le stanze di una casa scarna e asettica, ridotta ormai a un luogo di culto per la presenza costante di crocifissi alle pareti: ma il tono di “Paradise: Faith” è ovviamente dissacrante, perché presto questi oggetti diventano per Anna Maria un mezzo per ottenere piacere (in una scena di blasfemo autoerotismo che ha scandalizzato i benpensanti) e per Nabil una valvola di sfogo (li fa cadere a terra di proposito). Un confronto tra culture diverse destinato a naufragare, quasi un presagio di ciò che sta accadendo oggi in Europa: integralismo, accoglienza, invadenza (più che invasione) e intolleranza, tutte parole chiave che ritroviamo in un film dove Anna Maria incarna una chiusura a doppia mandata, senza possibilità di apertura verso gli altri. Lei impone ma non accetta imposizioni, come nel suo testardo pellegrinaggio porta a porta.
Il messaggio della pellicola è molto potente anche se questa volta il regista cede a qualche forzatura evitabile (l’orgia di anziani nel giardino di notte è uno shock programmato), motivo per cui “Paradise: Faith” è un lavoro di notevole livello ma forse troppo studiato a tavolino (l’ispirazione arriva da un vecchio documentario del 2003 di Seidl, dal titolo “Jesus, You Know”). Un prodotto quindi meno spontaneo di “Paradise: Love” però comunque capace di ossessionare a dovere lo spettatore, rinchiudendolo nuovamente nelle bislacche follie di una borghesia austriaca ancora una volta protagonista di storie allucinanti. Un panorama desolante, stavolta persino grottesco nei suoi sviluppi.

4

(Paolo Chemnitz)

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