Apostle

apostledi Gareth Evans (UK/Stati Uniti, 2018)

Erano trascorsi dodici anni dal primo e ultimo film in lingua inglese diretto da Gareth Evans, il suo debutto “Footsteps” (2006). Poco tempo dopo il regista gallese resta infatti fulminato sulla via di Giacarta, complice un documentario da lui realizzato sul Pencak Silat, un’arte marziale praticata in Indonesia: da qui nascono l’interessante prototipo “Merantau” (2009) e successivamente due bombe a orologeria come “The Raid: Redemption” (2011) e “The Raid 2: Berandal” (2014), pellicole capaci di sconvolgere su scala mondiale il cinema action estremo.
Con “Apostle” Evans cambia completamente le carte in tavola, tornando nel suo Galles con una storia ambientata nel 1905 e distribuita (tanto per cambiare) da Netflix. Conosciamo fin da subito Thomas Richardson (Dan Stevens), partito verso un’isola remota alla ricerca della sorella, rapita da una setta religiosa che in cambio del suo rilascio chiede un ingente riscatto: l’uomo però non ha intenzione di scendere a compromessi, così riesce a infiltrarsi all’interno di questa comunità scavando a fondo nei segreti e nei misteri che la avvolgono. Un rischio calcolato che mette a repentaglio la sua vita e quella di altre persone.
“Apostle” ha una durata spropositata di centotrenta minuti, troppi per un film che impiega almeno un’ora e mezza per carburare. Gareth Evans inizialmente lascia tutto in sospeso muovendosi con poca fluidità narrativa, una pecca per giunta sottolineata dalla scarsa attenzione per la psicologia dei personaggi: bisogna attendere un po’ prima che accada qualcosa di importante, un risveglio tardivo che prende piede anche grazie allo splatter e a allo sconfinamento frequente nel cinema horror. In parole povere, se la storia non decolla, meglio puntare sul sangue e sulle torture per catturare un pubblico probabilmente annoiato. La confezione è comunque impeccabile, a cominciare dalla livida e plumbea fotografia, un marchio di fabbrica spesso ricorrente nelle produzioni di marca Netflix. Lo stesso Evans ci sa fare e su questo non avevamo dubbi, ma il talento in fase di regia non corrisponde a un talento in fase di scrittura, nonostante il regista abbia cercato di inserirsi con prepotenza in quel filone cinematografico lontano dalla modernità: “Apostle” infatti si ispira palesemente a vecchie pellicole britanniche come “Il Grande Inquisitore” (1968) o “The Wicker Man” (1973), non rinunciando tuttavia a flirtare con qualche opera più recente (torna in mente persino “The Village” di M. Night Shyamalan). Però sia la tematica di matrice folk che quella di taglio religioso-settario non riesce a spiccare il volo in maniera decisa, complice quell’appiattimento di cui sopra nel quale restano coinvolti soprattutto i personaggi.
“Apostle” è una bella occasione mancata: Gareth Evans gioca in casa ma non va oltre una striminzita sufficienza, mentre Netflix dimostra ancora una volta di essere una piattaforma incapace di sdoganarsi da un target estetico poco diversificato rispetto alle più valide proposte nell’ambito delle serie televisive. Il pacchetto è sempre invitante ma non c’è alcun colpo di genio al suo interno.

2,5

(Paolo Chemnitz)

apostolo

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