di Satoru Ogura (Giappone, 1985)
La lunga saga di “Guinea Pig” ha sicuramente raccolto molto di più rispetto a quanto preventivato, ricevendo tanta pubblicità gratuita sia in patria (la censura tassativa in Giappone) che in America, dove il secondo capitolo “Guinea Pig: Flower Of Flesh And Blood” fu scambiato per un vero snuff movie dall’attore Charlie Sheen (con successiva indagine dell’FBI!). Inoltre sempre in terra nipponica alcuni film della serie furono ritrovati nella collezione di videocassette del serial killer Tsutomu Miyazaki, alimentando le polemiche attorno a un prodotto ormai demonizzato sotto ogni aspetto possibile.
Se come abbiamo visto in passato i due lavori diretti da Hideshi Hino (“Guinea Pig: Flower Of Flesh And Blood” e “Guinea Pig: Mermaid In A Manhole”) sono i migliori del lotto, è comunque doveroso spendere qualche riga sul primo episodio, diretto da un tale Satoru Ogura che presto abbandonerà la mdp per intraprendere la carriera di produttore. Dopotutto la regia non è certo il suo forte: “Guinea Pig: Devil’s Experiment” è praticamente un video amatoriale di circa quaranta minuti in cui assistiamo alle torture più becere inflitte nei confronti di una donna, un crescendo di supplizi e umiliazioni che culminano con alcune scene shock per le quali (forse) vale la pena attendere tutto questo tempo. Nonostante si tratti di un mediometraggio, l’opera infatti è piuttosto noiosa (Satoru Ogura non possiede la praticità di Hideshi Hino), una lunga agonia che ovviamente non contempla alcun abbozzo di trama: ciò che conta realmente per il regista è destabilizzare lo spettatore e tramortirlo con immagini al limite del sopportabile, cercando di fargli provare empatia per la vittima. Il risultato però non è del tutto credibile, considerando la prova abbastanza anonima della giovane sottoposta, poco incline a recitare una parte dove bisogna entrare in sintonia con il dolore inferto (le urla sono lanciate a sproposito).
Cosa resta allora di questo “Guinea Pig: Devil’s Experiment”? Gli effetti splatter (discretamente riusciti) e soprattutto l’importanza storica di essere il primo tassello non solo di una serie controversa ma di un genere intero, il torture movie nell’accezione più ristretta del termine, ovvero quando il plot non ha senso di esistere perché tutta la nostra attenzione è focalizzata sulla sofferenza del malcapitato di turno (pensiamo anche al recente e trascurabile “Grotesque”). Per apprezzare “Guinea Pig” bisogna quindi essere curiosi e avere uno stomaco abbastanza forte, ma “Devil’s Experiment” è pur sempre un piccolo prototipo: il meglio – se così possiamo chiamarlo – arriverà a breve con il secondo e il quarto capitolo, due film entrati nel cuore (e nelle budella) di ogni amante del cinema estremo più viscerale.
(Paolo Chemnitz)