di Robert Altman (Stati Uniti, 1983)
Si parla sempre poco di “Streamers”, anche perché nel 1983 gli anni settanta sono ormai un lontano ricordo e le case di produzione non sembrano voler dare più fiducia a Robert Altman, regista più volte premiato dalla critica ma spesso bocciato dal pubblico. Sono proprio alcuni insuccessi al botteghino a ridimensionare il cinema di Altman, costretto a ripartire con pellicole a basso costo come appunto “Streamers”, tratta dall’omonima pièce teatrale di David Rabe e girata in un solo ambiente con una manciata di attori. Tutti bravissimi, incluso Matthew Modine (Billy) che ritroveremo pochi anni dopo in “Full Metal Jacket” (1987) nei panni del soldato Joker.
La storia si svolge in una caserma all’interno di una camerata, dove tre giovani sono in attesa di partire per il Vietnam: la critica antimilitarista è subito ben presente, questi ragazzi non sanno neppure immaginare cosa sia la guerra, dai loro discorsi si intuisce l’ingenuità e l’inconsapevolezza di un periodo della vita in cui si vorrebbe ancora giocare senza assumersi grandi responsabilità. Ma i tre non sono a scuola, bensì in un luogo nel quale le tensioni (sia sessuali che razziali) sono sempre ben presenti e possono trasformarsi in odio e violenza in un batter d’occhio. Che la guerra sia deleteria per la psiche umana ce ne accorgiamo dal comportamento dei due sergenti veterani, entrambi perennemente ubriachi ma soprattutto scoppiati al limite della follia: andare a combattere distrugge mentalmente i sopravvissuti ma allo stesso tempo condanna a morte le nuove reclute, in un sistema militare che vorrebbe formare degli eroici guerrieri senza averne le possibilità. Proprio dai dialoghi tra i protagonisti o dai canti stonati dei due sergenti capiamo che questo percorso non ha senso: nessuno è pronto per sacrificarsi, perché in fin dei conti non esiste una guerra giusta. L’intenso e tragico epilogo giunge puntuale per ricordarci tutto ciò, lasciando che la violenza prenda il sopravvento in quel microcosmo dove ogni personaggio non può che affondare nelle proprie fragilità e insicurezze.
Quando un regista ha pochi mezzi a disposizione ma è capace di dirigere l’orchestra in maniera impeccabile, non ci sono dubbi sulle sue qualità. Con “Streamers” Robert Altman gira un film scarno ed essenziale ma talmente pregno di significati da far impallidire tanti altri lavori esteticamente più ricercati. Altman non soffoca gli attori ma li lascia liberi di interagire tra loro senza porre alcun freno alle emozioni: è una sperimentazione teatrale quella messa in scena dal cineasta del Missouri, una prova di coraggio che trova le sue conferme nella buona sceneggiatura e nella dimensione psicologica – mai superficiale – con la quale il regista affronta le vicende. La costruzione del climax si rivela così funzionale agli eventi raccontati, un crescendo che lentamente si insinua impietosamente sotto la pelle di chi osserva.
“Streamers” (ovvero la metafora del paracadute che non si apre intesa come salto nel vuoto) è una pellicola che – seppur lontana dai grandi capolavori di Altman – merita un doveroso riconoscimento. Più che un film, è un palcoscenico in cui l’amarezza di un destino segnato spazza via la speranza di una vita normale.
(Paolo Chemnitz)