di Benny Chi-Shun Chan (Hong Kong, 2001)
Nel 1999 un terribile caso di cronaca nera sconvolge Hong Kong: a causa di un debito non estinto, una ragazza che lavora in un nightclub viene rapita, torturata, smembrata e fatta sparire da tre aguzzini. La sua testa mozzata viene poi ritrovata all’interno di un grande pupazzo di Hello Kitty, da qui il nome con il quale ancora oggi ricordiamo la vicenda, The Hello Kitty Murder. Dopo alcuni mesi qualcuno è già al lavoro per raccontare questa storia, così nel 2001 escono non uno ma ben due film dedicati all’omicidio, “Human Pork Chop” e il suo gemello (molto meno ispirato) “There Is a Secret In My Soup”.
Benny Chan parte dalla fine, quando alcuni poliziotti irrompono all’interno di questo appartamento degli orrori: un lungo flashback ci riporta quindi all’origine dei misfatti, con la vittima che viene condotta in quelle stanze dopo aver rubato un’ingente somma di denaro al suo boss. Bisogna attendere mezzora prima che accada qualcosa, una fase preparativa comunque nervosa e straniante (niente male lo score elettronico, un tappeto sonoro che comunica ulteriore alienazione allo spettatore). Quando “Human Pork Chop” entra nel vivo, la misoginia più becera prende il sopravvento, la prostituta viene infatti picchiata senza pietà e assistiamo persino a una scena di coprofagia tutt’altro che accomodante, visto che la ragazza è costretta a sguazzare nella merda che ha intasato la tazza del cesso di quell’abitazione.
Benny Chan rinuncia a qualsiasi compromesso e con un budget limitato lavora esclusivamente dentro quelle quattro mura, puntando prima di tutto sul fattore claustrofobico e poi sulla tortura psicologica. Soltanto negli ultimi venti minuti il destino della giovane giunge al capolinea: una volta morta, Grace (questo il suo nome) viene fatta a pezzi e poi cucinata (il modo migliore per far sparire il cadavere). Ma il titolo non deve trarre in inganno, l’aspetto culinario qui non è preponderante come in altre pellicole provenienti da Hong Kong (pensiamo al celebre “The Untold Story”) e solo nella parte conclusiva l’elemento splatter comincia a fare il bello e il cattivo tempo. Inoltre in “Human Pork Chop” viene meno quell’ironia macabra spesso capace di marchiare a fuoco molte opere simili, anzi Benny Chan a volte sembra volersi prendere troppo sul serio (con risultati non sempre lucidi e credibili).
Se è vero che anche il nostro cinema vive di cicli (pensiamo al grande calderone estremo italiano dei 70s), la lunga e prolifica stagione della famigerata Cat III di Hong Kong (ovvero i film severamente vietati ai minori di 18 anni) qui riesce a rigenerarsi come nella migliore tradizione degli anni novanta, segno che il ricongiungimento con la Cina del 1997 ha ancora lasciato aperti molti strascichi legati al passato. Anche se sono trascorsi oltre tre lustri dall’uscita di “Human Pork Chop”, un’opera così sporca e sadica riesce comunque a contrapporsi in maniera veemente alla patina rassicurante che da tempo ha ricoperto tante pellicole realizzate nel sempre florido mercato dell’ex colonia britannica. Un film quindi semplice, crudo e scarno, ma allo stesso tempo capace di centrare il bersaglio con la sua carica infame e umiliante.
(Paolo Chemnitz)