Sweet Sixteen

sweet sixteen 2di Ken Loach (Gran Bretagna/Germania, 2002)

“Sweet Sixteen” è un film significativo tra quelli diretti da Ken Loach, forse il più indicato per essere inserito tra queste pagine. Non si tratta certo del miglior Loach, ma il premio per la sceneggiatura a Cannes nel 2002 e una serie di dure riflessioni sul mondo giovanile britannico lo rendono ancora oggi un lavoro importante, attuale, capace di sbatterci in faccia argomenti raccontati troppo spesso con superficialità in televisione o dai giornali. Lo stesso regista e attivista britannico, nell’intervista presente tra gli extra del dvd in nostro possesso, spiega alcuni aspetti interessanti delle vicende agganciandosi alla sua pellicola precedente “Paul, Mick e Gli Altri”: “questi ragazzi provengono da due generazioni di disoccupati e quindi sono molto alienati rispetto al mondo che li circonda. Diventano vulnerabili alle droghe e vivono in famiglie caotiche in cui i genitori spesso sono separati.”
Ci troviamo nei dintorni di Glasgow, in Scozia: Liam (un bravissimo e credibile Martin Compston) è un adolescente pieno di problemi, la mamma infatti è in carcere e il rapporto con il nonno e il suo violento patrigno è pessimo. L’unico vero amico di Liam è Pinball, un coetaneo compagno di sventure, ma il giovane coltiva comunque un sogno, quello di rivedere la madre libera (la scarcerazione è questione di poco tempo) e lontana dalle persone che hanno condizionato negativamente la sua vita. Il protagonista deve solo racimolare qualche soldo per far in modo che tutto questo sia possibile, ma la strada da percorrere è ricca di insidie.
Ken Loach conosce bene il disagio delle classi meno abbienti, ma “Sweet Sixteen” mette da parte la politica per fare spazio al sociale tout court, un’immersione nella quotidianità di un teenager la cui unica colpa è quella di essere costretto a sopravvivere nel peggior mondo possibile, quello degli adulti. Il titolo del film si pone quindi in diretta antitesi con l’amarezza mostrata dalle immagini, eventi e situazioni dove il riscatto è praticamente impossibile (al contrario di altre pellicole dirette dal regista britannico). Loach ammanta la storia di un realismo disarmante, questo soprattutto grazie alla scelta dei volti giusti e a un linguaggio sboccato ma tremendamente efficace (la parola fuck e derivati è utilizzata 313 volte!). Con un finale simile per certi versi a “I 400 Colpi” (1959) di François Truffaut.
Il solo elemento positivo presente in “Sweet Sixteen” è riconducibile al forte legame tra un figlio e una madre (irresponsabile), un cordone ombelicale ancora saldo nonostante la debolezza e la fragilità di una famiglia allo sfascio. Ken Loach riparte da qui per dimostrare che bisogna combattere per un obiettivo, l’unica possibilità per emergere dalla melma anche solo per un istante. Tutto questo all’interno di un film dove il concetto prevale sulla narrazione, volutamente scarna malgrado il fitto intreccio di rapporti umani (destinati a fallire). Un’opera disperata ma sincera, lontana anni luce dalla patina finto-commovente del cinema di denuncia per il grande pubblico.

3,5

(Paolo Chemnitz)

sweet sixteen pic

 

 

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