El Topo

kinopoisk.rudi Alejandro Jodorowsky (Messico, 1970)

Nel 1968, il primo lungometraggio “Fando Y Lis” (“Il Paese Incantato”) ci permette di conoscere il cinema surrealista di Alejandro Jodorowsky, una collaborazione con Fernando Arrabal (altro personaggio di spicco del Movimento Panico) penalizzata da un budget purtroppo limitato. Ma già con questo lavoro Jodo mostra alcune idee embrionali di grande potenza visiva e concettuale. Bisogna attendere soltanto due anni per assistere all’esplosione del regista cileno, “El Topo” infatti rappresenta un grande salto di qualità sotto ogni punto di vista, un’opera che presto inizia a circolare negli ambienti artistici più in voga del periodo, diventando persino il film preferito di John Lennon. Un passo concreto e definitivo, prima del botto assoluto (“La Montagna Sacra”) e di ulteriori evoluzioni ermetiche all’interno di una carriera dalle mille sfaccettature.
Un misterioso individuo vestito di nero sta vagando nel deserto con il figlio completamente nudo: “oggi compi sette anni. Sei un uomo ormai, sotterra il tuo primo giocattolo e il ritratto di tua madre”. Un incipit già colmo di significati, un taglio netto al cordone ombelicale in questo semplice ma eloquente rito di passaggio verso l’età adulta. Subito dopo ritroviamo i due in un villaggio dove qualcuno ha compiuto una strage. Da queste immagini emerge subito il lato oscuro ed estremo del cinema di Jodorowsky, tra animali sventrati e pozze di sangue alimentate dai cadaveri degli uomini appena massacrati. Qui prende vita il film, perché El Topo (il protagonista è lo stesso Jodorowsky) si mette a caccia dei banditi che hanno commesso la carneficina, un percorso ricco di incontri bizzarri e pericolosi ma allo stesso tempo la via per afferrare il senso della vita.

el-topoLa talpa è un animale che scava gallerie sottoterra. In cerca del sole, a volte la strada la porta in superficie. Ma quando vede il sole, resta cieca”. In questa frase è riassunta l’essenza pura dell’opera, un viaggio spirituale pregno di simbolismi e di metafore spesso legate alla religione. Il regista spacca in due la pellicola, con una prima parte più ariosa (magnificamente fotografata) correlata alla ricerca di significati reconditi (dagli evidenti retaggi di matrice cristiana) e una seconda invece ancora più criptica, nella quale El Topo finisce in una comunità sotterranea dove vivono degli emarginati deformi e mutilati. Successivamente, riusciamo a scorgere più di una volta il simbolo dell’occhio nel triangolo: il sole, l’onniscienza e la perfezione, sulla scia di un’iconografia massonica a cui il film rivolge silenziosamente lo sguardo. Una perfezione che tuttavia è l’errore stesso insito nell’uomo, una ricerca spasmodica del divino che acceca esattamente come il sole acceca la talpa.
Quello di Jodorowsky è un western magico troppe volte accostato al cinema di Sergio Leone: se è vero che in alcune situazioni l’influenza è palese (la sfida tra El Topo e i tre pistoleri), esistono altre fonti ancora più solide dalle quali il regista sembra aver attinto. “Se Sei Vivo Spara” (1967) di Giulio Questi ad esempio anticipa l’impatto surrealista di certe sequenze, oltre a immortalare dei banditi gay che ritroviamo anche nell’opera jodorowskiana. Non bisogna neppure trascurare l’apporto fornito dalla corrente del Cinéma Nôvo brasiliano, il personaggio di El Topo infatti mostra grandi somiglianze con quello di “Antonio Das Mortes” (1969), carismatico protagonista presente anche nel precedente “Black God, White Devil” (1964) sempre per la regia di Glauber Rocha. Un eroe portatore di giustizia e verità.
I motivi per cui bisogna immergersi in questo film almeno una volta nella vita sono troppi, ma una cosa è certa: anche dopo una seconda o terza visione continuiamo a essere assaliti da mille domande, perché le opere di Jodorowsky incarnano l’esatto opposto dell’immediatezza, una scia di nebulosi dubbi che scavano nella mente come il discorso di un filosofo che – seduto davanti a noi – ci sta spiegando come funziona la nostra esistenza.

4,5

(Paolo Chemnitz)

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