di Carlos Reygadas (Messico/Germania, 2002)
In attesa del suo nuovo lungometraggio (“Nuestro Tiempo”) in concorso a Venezia tra poche settimane, facciamo un grande passo indietro tornando al clamoroso debutto di Carlos Reygadas, “Japón”. Egli gira a soli trent’anni un film che potrebbe dirigere un navigato cineasta in preda ai rigurgiti esistenziali di fine carriera, eppure per il regista messicano questo lavoro rappresenta fin da subito un punto di arrivo, un vertice a nostro avviso ineguagliato. Anche perché, se escludiamo il meno efficace “Battaglia Nel Cielo” (2005), i pur ottimi “Stellet Licht” (2007) e “Post Tenebras Lux” (2012) sfiorano ma non raggiungono la potenza immane sprigionata da questa pellicola, un inno alla vita attraverso la morte, l’unico filtro possibile per poter dare un senso a tutto quello che ci circonda.
L’incipit mostra alcune strade asfaltate e trafficate, qualcuno si sta lasciando alle spalle la città, si tratta di un individuo senza nome che giunge in una zona impervia del Messico, un canyon dove la presenza umana è inesistente a eccezione di alcuni sperduti villaggi. Non sappiamo perché (anche se possiamo intuirlo), ma il protagonista si reca qui con una sola intenzione: “vado a uccidermi”. Prima di compiere tale gesto l’uomo incontra alcune persone che si dimostrano gentili e accoglienti con lui, ma il suo desiderio non viene esaudito dal momento in cui egli inizia a condividere le sue giornate con una vecchia signora religiosa di nome Ascen, un contatto educato e rispettoso che genera un’energia che coincide con il risveglio dei sensi e del corpo (la scena della masturbazione o il sofferto e poetico amplesso).
“Japón” è un film che mette subito in antitesi l’ambiente ostile in cui si svolgono gli eventi con lo spirito di sopravvivenza che muove tutti i personaggi dell’opera. E’ proprio dalle pietre che rinasce il germoglio, un rinvigorimento spirituale che viene simbolizzato dalla pioggia e da alcuni piccoli gesti quotidiani che per il protagonista hanno una valenza di vitale importanza: attraverso la sottrazione Carlos Reygadas dà quindi il giusto valore alla povertà, alla solitudine e alle interazioni umane. Tutto questo condito da una regia minimale che trova il suo apice assoluto nel meraviglioso piano sequenza conclusivo.
La presenza della morte nel film è costante, fin dalle immagini in cui l’uomo incontra un ragazzino che raccoglie un uccello colpito in volo: il protagonista lo prende e lo decapita, vediamo così la testa dell’animale che si dibatte sul terreno brullo quasi come un tragico monito sulla fragilità dell’esistenza. La morte è ovunque e la narrazione stessa è talmente estenuante da volerci condurre verso i titoli di coda come in una lenta processione nel deserto. Perché “Japón” è mortifero nonostante il tema della rigenerazione.
Con questa pellicola Reygadas ci introduce all’interno di un ambiente rurale che poi sarà un elemento cardine del suo cinema, un luogo dove il lento ritmo della natura sovrana è accompagnato da sconvolgimenti interpersonali che gli uomini non sono in grado di governare, una tematica talmente profonda e subliminale che trasforma ogni fotogramma di “Japón” in un compendio di filosofia pregno di significati. Chi ama il cinema non può non portare questo film nel cuore.
(Paolo Chemnitz)
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
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