di Simon Rumley (Stati Uniti, 2016)
“Fashionista” era molto atteso da chi, come noi, ammira Simon Rumley fin dal suo vertice “The Living And The Dead” (2006), un film poi seguito da un’altra eccellente pellicola uscita quattro anni dopo (“Red White & Blue”). Il regista inglese gira nuovamente in Texas e torna a collaborare con la brava Amanda Fuller, già protagonista di “Red White & Blue”, ma la notizia più importante riguarda lo script, di cui si è occupato lo stesso Rumley come appunto era accaduto in passato. Premesse importanti, soprattutto alla luce del passo falso di “Johnny Frank Garrett’s Last Word” (2016), un lungometraggio diretto ma non sceneggiato dal cineasta albionico a cui mancava infatti un’impronta personale.
April (Amanda Fuller) lavora con Eric in un grande negozio di abiti usati, l’unico collante per una coppia instabile che vive quotidianamente le proprie ossessioni: April gestisce la sua ansia sniffando i vestiti, mentre Eric in casa accumula capi di abbigliamento come se nulla fosse, un caos sia mentale che materiale in cui veniamo immersi fin dai titoli di testa (la musica salta da un genere a un altro nel giro di pochi secondi, abbinandosi di volta in volta con un vestito diverso). La prima parte di “Fashionista” è volutamente confusa, la messa in scena è sovraccarica e la telecamera spesso scruta questi personaggi nascosti dietro montagne di abiti senza mai concedere ai nostri occhi un’inquadratura limpida. Rumley utilizza flashback e linee narrative non convenzionali, influenzato palesemente dallo stile di Nicolas Roeg (citato infatti al termine del film) e disorientandoci più volte soprattutto quando entrano in gioco nuovi misteriosi personaggi. Uno di questi è Randall, un viscido seduttore con la passione del sadomasochismo che vive in un luogo incantato, una luminosa villa dove le bianche geometrie si pongono in maniera diametralmente opposta alla cupa e disordinata abitazione dei due protagonisti. L’apice della pellicola viene raggiunto proprio durante la parte centrale, quando la musica elettronica crea il giusto contorno per una sequenza di grande tensione: il film diventa più chiaro e digeribile, prima di ritornare nella sua sfera più criptica in un finale ambiguo che si può interpretare molto liberamente.
Simon Rumley doveva reinventarsi ma ci è riuscito solo in parte: il suo approccio genialoide dietro la mdp resta immutato, questa volta però è la storia a convincere a metà. Lo stato di dipendenza dai vestiti in cui vivono April ed Eric non è approfondito a dovere, mentre viene lasciato troppo spazio per una crisi di coppia dove il tradimento diventa l’unico sbocco possibile. Il dramma caotico soffoca quindi la malsana patologia. Rumley vuole riprendere le redini di Roeg, immergendo questo apparente passaggio di consegne nei colori e nella frenesia dei giorni nostri, ma in realtà a noi questo talentuoso regista piace solo quando imita se stesso, senza tentare il fatidico passo più lungo della gamba.
(Paolo Chemnitz)