di Kim Ki-Duk (Corea del Sud, 2001)
Con “Bad Guy” (“Nabbeun Namja”) Kim Ki-Duk chiude un cerchio ritornando praticamente al punto di partenza: il suo debutto del 1996 intitolato “Crocodile” rappresenta infatti il grezzo (ma altrettanto valido) prototipo di questa pellicola. Dinamiche diverse ma sviluppo molto simile, anche se “Bad Guy” allo stesso tempo apre nuove prospettive per il cinema di Kim Ki-Duk, costituendo un tassello di respiro internazionale in perfetto equilibrio tra eleganza e manierismo (termine che in questo caso non ha per forza un significato negativo).
Han-ki è ossessionato da una giovane donna, Sun-hwa. Quando la ragazza viene rapita da questo uomo silenzioso, per lei inizia un calvario nel mondo della prostituzione, nonostante questo misterioso personaggio (che la spia e la tiene sotto osservazione di continuo) provi qualcosa di speciale per lei. La schiavitù e la costrizione diventano così una forma di salvezza, sia per il protagonista che per Sun-hwa, entrambi complici di un rapporto morboso nel quale nessuno può fare a meno della sua controparte. Come appunto era accaduto per “Crocodile”, è l’amore a insinuarsi nella storia, qui però votato a una sorta di romanticismo oltranzista. “Bad Guy” è quindi un (melo)dramma estremo, doloroso e ricco di sfumature, una poesia che si muove in punta di piedi sprofondando nell’animo tormentato dei due giovani (nel film lo specchio è un elemento importante che frammenta e disorienta invece che mostrare un’immagine compiuta). Kim Ki-Duk ricompone la vita di Han-ki e rimette a posto i pezzi perduti di un passato che riemerge persino dalla sabbia, un destino che ritorna come un ciclo impossibile da fermare.
Un punto di riferimento fondamentale del film è rappresentato dalle opere di Egon Schiele, già citato da Kim Ki-Duk in “Birdcage Inn” (1998), un’altra pellicola imperniata sulle relazioni umane corrotte. Il malinconico erotismo della pittura dell’artista austriaco si riversa perfettamente nel clima descritto dal regista, tra corpi avvinghiati nella sofferenza (pensiamo a un quadro come L’Abbraccio) e quelle linee taglienti e incisive che esprimono angoscia e disfacimento fisico e morale. Han-ki e Sun-hwa sono i modelli ideali per un prodotto che sostituisce il pennello con l’inquadratura, trasmettendoci un’energia a tratti realmente portentosa: Han-ki parla infatti con il corpo e i suoi movimenti, mentre la ragazza è un ulteriore esempio di quanto sia basilare la figura femminile nel cinema di Kim Ki-Duk, una donna martire che attraverso il sacrificio si eleva al di là dell’uomo, diventando persino la colonna portante di un rapporto. “Bad Guy” perciò stravolge il classico dualismo tra vittima e carnefice, ridisegnando persino l’immancabile sindrome di Stoccolma e affossando perentoriamente le solite (e superficiali) accuse di misoginia.
Dopo aver toccato vette forse irraggiungibili (“L’Isola” è un capolavoro), “Bad Guy” conferma l’ottimo momento di forma per il regista coreano, qui ancora nella fase più ispirata della sua carriera. Un film ideale per sondare il lato oscuro dei sentimenti umani.
(Paolo Chemnitz)