Il Paese Del Sesso Selvaggio

il paese deldi Umberto Lenzi (Italia, 1972)

La nascita (inconsapevole) dei cannibal movies ha una data ben precisa, il 1972. “Il Paese Del Sesso Selvaggio” è prima di tutto un film di avventura, con una trama molto simile a quella del celebre western revisionista “Un Uomo Chiamato Cavallo” (1970) di Elliot Silverstein, qui ibridata con alcune sequenze di taglio documentaristico atte a illustrare la vita quotidiana di una comunità tribale, immagini non troppo distanti da quelle mostrate negli infami mondo movies di italica provenienza. Non manca nulla quindi per dare il via a una corrente tra le più controverse del cinema bis nostrano, il cui successo è comunque posticipato alla grande stagione dei vari “Cannibal Holocaust” (1980) e “Cannibal Ferox” (1981), quest’ultimo diretto dallo stesso Lenzi (suo anche “Mangiati Vivi!” del 1980).
Ivan Rassimov (perché quei terribili capelli color giallo paglierino?) è Bradley, un fotoreporter inviato in Thailandia: a causa di un diverbio finito a coltellate, l’uomo è costretto a scappare dalla città, ma durante la sua fuga nella giungla alcuni indigeni lo catturano impedendogli qualsiasi tentativo di lasciare la tribù. Il protagonista è impossibilitato a comunicare con questi individui che lo sfruttano e lo coinvolgono in alcuni sanguinosi rituali (almeno per noi occidentali, abituati a guardare dall’alto in basso le usanze bislacche di questi primitivi). Non tutti i mali però vengono per nuocere, Bradley infatti può contare sull’appoggio di Marayå (la graziosa attrice birmana Me Me Lay) e su un processo di trasformazione che presto lo porta a diventare parte integrante di quella comunità. Praticamente “Un Uomo Chiamato Cavallo” in versione thailandese, motivo per il quale il titolo anglofono “Man From Deep River” ricorda in parte quello originale del western di Silverstein (“A Man Called Horse”) e si rivela una denominazione sicuramente più coerente rispetto a quella italiana, abbastanza stupida e fuorviante (il sesso non rappresenta affatto la componente essenziale del film).
Quello di Lenzi è un lungometraggio di notevole importanza storica che però – una volta separato dal contesto cannibal ed esaminato nella sua unicità – non mantiene le promesse iniziali: il plot è poca cosa e la seconda parte dell’opera diventa persino melodrammatica, mentre sullo schermo qua e là si avvicendano stupri, una sola e unica sequenza legata all’antropofagia e le immancabili violenze nei confronti degli animali (che in questo film sono molto più accentuate e gratuite rispetto a quello che vedremo dopo, “Cannibal Holocaust” incluso). Bella la fotografia e positivo anche lo score musicale, ma “Il Paese Del Sesso Selvaggio” merita la visione solo ed esclusivamente per avvicinare e scoprire le radici del fenomeno, poiché a lungo andare non offre spunti degni di nota. Il classico b-movie senza infamia e senza lode, al contrario delle cose pazzesche che vedremo dopo qualche anno sempre in Italia.

2,5

(Paolo Chemnitz)

il paese del sesso selvaggio

 

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