di Takashi Shimizu (Giappone, 2004)
Il nome di Takashi Shimizu associato alla saga di Ju-on (“The Grudge”) rappresenta uno dei passaggi fondamentali per comprendere a pieno il fenomeno J-horror. Succede poi che quando un regista viene identificato con un film di importanza basilare (e con i suoi derivati), divincolarsi dalle etichette diventa difficile e non sempre porta buoni frutti. “Marebito” è l’eccezione che conferma la regola, una pellicola a basso costo girata tutta in digitale in poco più di una settimana, un lavoro che rielabora attraverso un’ottica esistenzialista uno dei temi portanti del cinema horror, quello legato alla paura.
Shinya Tsukamoto (come al solito ottimo anche nelle vesti di attore) interpreta Masuoka, un cameraman freelance ossessionato dalle storie più macabre e dalle leggende metropolitane: egli rimane colpito da un video in particolare, nel quale un uomo si toglie la vita conficcandosi una lama sulla fronte proprio all’altezza del terzo occhio (un atto dalla forte valenza simbolica). Lo sguardo del suicida è terrorizzato, come se avesse visto qualcosa di terribile prima di uccidersi. Masuoka decide così di esplorare la metropolitana di Tokyo, in modo tale da poter alleviare la sua curiosità risolvendo il mistero. Qui all’interno di una caverna si imbatte in una donna nuda (chiamata semplicemente F) che egli conduce nel suo appartamento, ma questa creatura ha bisogno di sangue per sopravvivere: Masuoka diventa il suo salvatore, offrendo alla ragazza prima del sangue animale e poi quello di alcune malcapitate che l’uomo è costretto ad assassinare con le proprie mani.
“Marebito” sfiora molti argomenti chiave trattati in lungo e in largo dal cinema horror moderno, assemblandoli in maniera lineare e senza concedere troppo allo spettacolo: F è un vampiro urbano proveniente da un sottomondo dall’immaginario fantastico (Shimizu cita “Le Montagne Della Follia” di H.P. Lovecraft), ma non mancano alcuni riferimenti a pellicole del passato come “Peeping Tom” (“L’Occhio Che Uccide”, 1960) oppure “Guinea Pig: Mermaid In A Manhole” (1988).
Salire su un treno senza conoscere la destinazione (quello che a un certo punto fa Masuoka) è la metafora della ricerca dell’orrore, un viaggio di cui non sappiamo mai nulla di concreto: ecco che così ritorna quel terzo occhio inteso come percezione di fenomeni straordinari, una sensibilità capace di esplorare il proprio mondo interiore portando l’individuo a un livello di conoscenza superiore. Un tuffo nel buio per trovare la luce. “Horror is actually an ancient wisdom that we find deep in the memory of our souls”, in “Marebito” il terrore non è quindi collegato ai fantasmi tanto in voga in terra nipponica, perché c’è qualcosa di molto più orribile all’interno della mente umana e il rapporto tra F e Masuoka ne incarna le più dolorose conseguenze. Per Takashi Shimizu questo è un film diverso, oscuro, quasi onirico per contenuti e svolgimento. Da riscoprire.
(Paolo Chemnitz)