di Adam Rehmeier (Stati Uniti, 2011)
Nel decennio in corso, il cinema horror underground americano ha sfornato prodotti estremi di varia consistenza, alcuni dei quali purtroppo indirizzati verso un percorso pseudo-autoriale teso ad affossare la sostanza, i concetti e le idee stesse alla base dei film. Tante belle immagini utilizzate per occultare le mancanze evidenti in fase di script, un ingenuo autocompiacimento che a lungo andare limita pesantemente il valore dell’opera. Come nel caso di “The Bunny Game”, sbucato fuori quasi dal nulla durante il 2011 e già all’epoca oggetto di varie discussioni sulla nostra pagina social: una pellicola sicuramente disturbante, malsana e deviata, ma allo stesso tempo presuntuosa e tirata talmente per le lunghe da irritare a più riprese.
Bunny è una prostituta, il film si apre infatti con un pompino (vero) che la ragazza sta praticando a un cliente. La giovane è interpretata da Rodleen Getsic (sconosciuta cantante, oltre che attrice e attivista statunitense), la quale insieme al regista Adam Rehmeier ha buttato giù la sceneggiatura, mettendo su carta alcune esperienze legate a una serie di rapimenti che la donna ha subito in passato (sembra fantascienza, eppure così è accaduto). In “The Bunny Game” c’è quindi poco da stare allegri: la protagonista trascorre le giornate tra sniffate di cocaina e squallidi amplessi, circondata da uomini rudi e violenti, capaci anche di sottometterla o maltrattarla. Ma al peggio non c’è mai fine, poiché Bunny un giorno viene rapita da uno psicopatico che la rinchiude in un camion, portandola via con sé. Da questo istante in poi il film cambia registro e ci mostra solo torture, umiliazioni e una serie di pratiche feticiste volte a soddisfare le perversioni di questo criminale. Il coniglio finisce in gabbia e il dolore diventa l’unico sospiro della sua anima.
Fosse stato un mediometraggio, avremmo parlato di “The Bunny Game” in maniera più lusinghiera, ma settantasei minuti sinceramente sono eccessivi per raccontare una storia così semplice e poco stratificata. L’opera di Adam Rehmeier non ha certo pretese psicologiche (né tantomeno sociologiche), il suo lavoro corrisponde alla pura estremizzazione di alcune disavventure che hanno coinvolto la bionda attrice nella vita reale, un contenitore che purtroppo resta vuoto nonostante le buone intenzioni di partenza: è interessante notare come tutte le scene nelle quali sono mostrati atti sessuali siano autentiche (idem per i tagli causati dal coltello o le piccole ustioni), una sorta di (op)pressione minatoria che sostituisce l’elemento sangue, qui completamente assente. Questo senso di spaesamento e di terrore costante è però supportato da un montaggio talmente nevrotico da risultare eccessivo e dannoso per la fruizione stessa degli eventi. Il bianco e nero altamente contrastato funziona, questo bisogna ammetterlo, così come la disumanizzazione programmata della protagonista (le sue urla distorte lasciano la sensazione di un sonoro vomitato fuori dallo schermo), ma nel martirio generale Rehmeier indugia troppo su particolari inutili e trascurabili, mettendo in scena un horror noioso che non riesce neppure a scioccare con la dissonante colonna sonora (il black metal qui è assolutamente fuori luogo).
“The Bunny Game” pretende ma non raggiunge il suo obiettivo: mai come in questo caso è importante saper distinguere tra prodotti estremi genuini ma efficaci e cinema di confine che offre molto fumo ma decisamente poco arrosto. Troppa vanità non corrisponde alla tanto sospirata concretezza.
(Paolo Chemnitz)