di Matteo Garrone (Italia/Francia, 2018)
Nel 1988 Pietro De Negri, un toelettatore di cani con il negozio nel cuore della Magliana a Roma, attirò con una scusa nel suo esercizio un ex pugile dilettante, Giancarlo Ricci, torturandolo fino alla morte. Tra i due c’erano stati numerosi dissidi in passato ma De Negri si era stufato di subire continue angherie e umiliazioni, Ricci infatti lo minacciava e lo picchiava solo per poterlo sfruttare a suo piacimento (da lui otteneva cocaina oppure la complicità per commettere rapine, almeno stando alla ricostruzione fatta dal toelettatore). All’epoca questo omicidio colpì talmente tanto l’opinione pubblica che ancora oggi lo ricordiamo come il delitto del Canaro.
Matteo Garrone è stato chiaro: “non ero interessato ad alcuna ricostruzione dei fatti, il dato di cronaca è un puro pretesto. Parto dalla realtà e la trasformo in una fiaba nera”, una presa di posizione netta che scaccia via una serie di polemiche innescate subito dopo la proiezione al Festival di Cannes, dove “Dogman” ha ricevuto moltissimi applausi. In effetti le vicende non si svolgono nel 1988 ma in epoca più recente (l’euro ha sostituito la lira), anche se la degradata location periferica (molte riprese sono state effettuate a Castel Volturno) sembra riportarci indietro nel tempo, proprio alla fine degli anni ottanta. Se l’idea di base è quindi ispirata alle vicende storiche (non a caso in passato il regista aveva già raccontato con “L’Imbalsamatore” e “Primo Amore” episodi legati alla cronaca nera), c’è anche una libertà narrativa che permette a Garrone di prendere molto alla larga le vicissitudini del protagonista, il quale nella prima parte del film viene approfondito a dovere sotto diverse sfumature.
Marcello (un tenero e fantastico Marcello Fonte) è un ometto gentile e benvoluto da tutti, nel suo negozio si avvicendano cani di ogni razza di cui lui si prende cura amorevolmente. Ma tra quelle case vive anche Simoncino (Edoardo Pesce), un ragazzone violento perennemente in botta di coca considerato da tutti la mela marcia del quartiere. Il rapporto tra i due sappiamo già come è destinato a finire. Matteo Garrone si dimostra eccelso nella direzione degli attori (e questa non è una novità), in “Dogman” c’è una coralità di fondo che si muove con moto circolare, fino a sfociare in quel magnifico epilogo dai contorni surreali, nel quale l’elemento purificatore (il fuoco) si scontra con la foschia del mattino, una prova di forza che si disperde nel tentativo di recuperare ciò che è stato perduto. Inoltre all’interno di questa storia disumana, il film si sofferma pure sulla lealtà, sull’amicizia e su un codice morale non scritto che purtroppo appartiene a questo individuo debole e tormentato, il povero toelettatore: ma la furia dell’uomo paziente si riversa in tutta la sua brutalità nel rabbioso confronto con Simoncino, dove Garrone evita di spingere sull’acceleratore mostrandoci il giusto. Una morbosità calcolata e non spettacolarizzata, persino vissuta attraverso gli occhi dei cani, spettatori impassibili della cattiveria umana. Sono proprio queste bestie i testimoni silenti (e abbaianti) di un mondo completamente marcio, una sfilza di grigie abitazioni ingabbiate all’interno di una fotografia cupa e lugubre, praticamente una prigione per tutti i protagonisti del film (per Marcello gli unici momenti di fuga sono rappresentati dalle immersioni subacquee con la figlia).
“Dogman” ribadisce ancora una volta la caratura internazionale di uno dei migliori registi italiani del nuovo millennio, sempre a proprio agio tra storie di strada e personaggi scomodi. Questa volta a prevalere è la frustrazione, il ribaltamento delle regole, la crudeltà di una vendetta che non offre vincitori. Come in un western (urbano) dove nessuno riesce a sopravvivere.
(Paolo Chemnitz)