di Artur Aristakisyan (Russia, 2001)
Cinema della disperazione. Difficile descrivere “Un Posto Sulla Terra” con altre parole, perché in queste due ore tutto quello che scorre davanti ai nostri occhi appartiene esclusivamente a un mondo fatto di miseria, alienazione e sofferenza. Per il regista di origine moldava Artur Aristakisyan questo luogo si trova nel cuore di Mosca, l’ultimo posto sulla terra (il film è conosciuto anche con questo titolo) o forse il primo dell’inferno.
All’interno di un edificio fatiscente scorre la vita di una comune: qui trovano riparo disadattati, barboni, storpi, malati di mente e freaks di ogni genere, individui invisibili rifiutati dalla società. Il capo di questa comunità è un uomo che predica l’amore libero come unica fonte di salvezza per queste persone, chiunque infatti può accoppiarsi all’interno di quelle mura, una visione fraterna e solidale che però non scaccia il tanfo opprimente di morte che striscia nelle stanze. Questo pseudoprofeta si rivela ambiguo e incoerente, soprattutto quando si infatua di una donna che non appartiene a quel gruppo di emarginati, mettendosi così in contraddizione con i suoi stessi principi. Proprio questo passaggio del film è la chiave per l’evoluzione degli eventi, che nella seconda parte dell’opera abbandonano momentaneamente la dimensione claustrofobica per aprirsi verso l’esterno. Là fuori però non c’è ossigeno per nessuno di questi emarginati.
“Mesto Na Zemle” (nella sua denominazione originale) è avvolto da un realismo disarmante e da un lurido bianco e nero che annichilisce completamente il nostro sguardo: durante la prima parte del film assistiamo a uno scenario allucinante, tra sporcizia, malattie, irruzioni violente della polizia e topi che finiscono addirittura per diventare una risorsa per la sopravvivenza. Il dramma si consuma nei volti segnati dal dolore, tratteggiati dal regista con qualche acuto rimando al neorealismo italiano, occhi spenti perduti nel vuoto o corpi moribondi che attendono soltanto il lieto fine, ovvero la dipartita (si respira un’apatia di fondo che collima esclusivamente con il baratro più asfissiante).
Cinema di denuncia? Sì ma senza concessioni allo spettacolo, “Un Posto Sulla Terra” è la normalità del quotidiano che facciamo solo finta di non vedere, è un sottomondo che genera repulsione, è il degrado che finisce sotto al tappeto. Ci sfiora ma è lì, tutti i giorni, a Mosca come in ogni città del mondo. Aristakisyan è l’artefice unico (il regista ha dedicato cinque anni della sua vita esclusivamente al film, diventando a sua volta un diseredato), il testimone oculare che muove tra quelle stanze la mdp, già scaldata con l’esperienza documentaristica del monumentale “Ladoni” (1994) e i suoi meccanismi legati all’esclusione sociale. Grazie alla RaroVideo e al supporto dell’infaticabile Enrico Ghezzi entrambi i titoli sono giunti in Italia, un recupero fondamentale per accostarsi al cinema estremo proveniente dall’ex Unione Sovietica.
“Un Posto Sulla Terra” è una parabola sull’essere umano destinato a soccombere: l’amore riscalda, seduce e abbandona, un disfacimento nell’unione che vive di contrasti, esattamente come le azioni discordanti del santone protagonista che predica bene ma razzola male. E a fine visione ci sentiamo sporchi, attraversati da un solco profondo di angoscia che continua a fare breccia nei nostri pensieri.
(Paolo Chemnitz)