di Park Hoon-Jung (Corea del Sud, 2017)
Che i coreani sappiano girare grandi thriller è un dato di fatto. Si tratta spesso di film complessi, stratificati e dal minutaggio molto lungo, esattamente come avviene con il ritorno dietro la mpd di Park Hoon-Jung, già sceneggiatore del fondamentale “I Saw The Devil” (2010) poi passato presto dietro la telecamera: a tal proposito, si è parlato molto del suo crime movie “New World” (2013), un’opera decisamente valida ma a nostro avviso sopravvalutata. Come “V.I.P.” del resto, ma sappiamo che in Corea anche un thriller imperfetto non si butta via per nessun motivo, anzi!
Il prologo è fulminante, ci troviamo nella magica notte di Hong Kong e un uomo sta per incontrare una sua vecchia conoscenza, un agente della CIA che gli commissiona un compito delicato, ovvero entrare dentro un appartamento per catturare una persona (questo dopo aver fatto fuori tutte le guardie del corpo presenti nel palazzo). Bisogna però attendere l’epilogo per capire cosa realmente stia accadendo e chi sia la vittima sacrificale, poiché dopo una manciata di minuti l’opera torna indietro di cinque anni. Corea del Nord: una ragazza passeggia per una strada di campagna, un gruppetto di giovani la rapisce e la carica in macchina. La sua famiglia viene massacrata (bambini inclusi) mentre la donna subisce violenze e sevizie prima di essere ammazzata senza pietà. A capo di questa gang c’è Kim Gwang-Il, un serial killer che ritroviamo in azione pochi anni dopo in Corea del Sud. E’ lui la very important person del titolo, uno psicopatico protetto nella sua patria di origine (è figlio di un pezzo grosso) ma considerato una pedina fondamentale anche al di fuori dei suoi confini. Coperto dai servizi segreti americani e dall’intelligence coreana (del sud), il ragazzetto non può più uccidere ma diventa una sorta di mostro intoccabile, tranne per qualcuno che non la pensa allo stesso modo.
“V.I.P.” ha stile, è girato con grande impeto e riesce sempre a mantenersi a galla nonostante i tanti flashback a cui siamo sottoposti. A convincere di meno è però la sceneggiatura, a tratti eccessivamente forzata come se stessimo davanti a un blockbuster americano di seconda fascia. Ma Park Hoon-Jung se ne frega altamente di questo aspetto, concentrandosi sulla trama circolare e sulle impennate di violenza (alcune davvero estreme, altre mostrate fuori campo), una prerogativa splatter che rende alcune immagini molto più succulente del previsto. E’ un peccato però non poter elogiare fino in fondo questo prodotto, sorprendente sotto molti punti di vista ma allo stesso tempo sfilacciato quando si tratta di coniugare l’aspetto ferale del protagonista con le sue varie vicissitudini transasiatiche, un intrigo internazionale (con qualche verbosità di troppo) nel quale gli stravolgimenti di fronte non si dipanano con naturalezza, quasi a voler cercare a tutti i costi il colpo ad effetto (la sparatoria sul cavalcavia, splendida per gli occhi ma un po’ meno per la logica).
Alla resa dei conti, il personaggio di Kim è la cosa che ci piace di più: un sorriso beffardo e una faccia da schiaffi perfetta per lo sviluppo della storia, il motore trainante di una pellicola ovviamente interessante ma non per questo capace di entrare nel gotha dei migliori prodotti del genere. Dopotutto il cinema coreano ci ha viziati e adesso siamo diventati più esigenti del solito.
(Paolo Chemnitz)