di Ulrich Seidl (Austria, 2016)
Prosegue il controverso rapporto tra Ulrich Seidl e il continente africano, dopo il debordante “Paradise: Love” (2012) ambientato in Kenya. Stavolta ci spostiamo in Namibia, dove il regista austriaco segue un gruppo di persone impegnate in questa nuova frontiera del colonialismo, la vacanza venatoria (una definizione utilizzata dallo stesso Seidl durante la presentazione del film al Festival di Venezia). Un turismo non solo per ricchi, un fenomeno quindi trasversale che qui ritrae alcuni suoi conterranei di tutte le età, dalla coppia di giovani a quella di pensionati.
“Safari” si può considerare uno spin-off del precedente “Im Keller” (2014), un’opera che scendeva giù nelle cantine delle famiglie austriache per raccontare i loro segreti più inconfessabili: tra queste persone, potevamo scorgere chi nascondeva dentro casa un vero e proprio museo di animali impagliati, di armi e di cimeli di indubbia provenienza. Ulrich Seidl riparte da qui, mettendoci con le spalle al muro davanti a questo catalogo di atrocità, uno shockumentary erede legittimo di alcune suggestioni che già avevano scosso la nostra sensibilità ai tempi di “Africa Addio” (1966) del duo nostrano Jacopetti e Prosperi. “Safari” non è certo accostabile a un mondo movie, ma l’idea di fondo è devastante e disturbante come nel più realistico dei documentari. Ecco perché la visione di questo lavoro è da consigliare esclusivamente a chi volesse conoscere da vicino un ennesimo tragico aspetto della realtà che ci circonda (tutti gli altri ne stiano alla larga, soprattutto gli animalisti convinti).
“Perché mi devo giustificare? Perché devo spiegare il motivo per il quale ogni tanto mi piace uccidere gli animali?” (queste le parole agghiaccianti di uno dei protagonisti del film). Ma tutti i dialoghi lasciano a dir poco basiti, come quando si discute se sia meglio ammazzare una zebra o uno gnu. Sono proprio questi animali a rimetterci le penne: prima un povero gnu, poi appunto una zebra e infine una giraffa, sequenze insostenibili aggravate dalla consapevolezza di aver compiuto un atto di cui andare orgogliosi (con successiva fotografia accanto alle carcasse di questi pseudo-trofei).
Come al solito, la regia di Seidl è chirurgica e distaccata: egli lascia giudicare i nostri occhi, rendendoci inermi davanti alle immagini shock nel mattatoio improvvisato, dove questi turisti – in combutta con alcuni individui del luogo – trasportano i cadaveri degli animali. Un meccanismo spietato, praticamente una catena di (s)montaggio tra le più crudeli viste sullo schermo. Forse, anche per questo motivo, “Safari” non ha trovato i canali giusti per una facile reperibilità (al momento, il film è uscito soltanto in edizione home video in Austria e Germania).
Che dire ancora? Ulrich Seidl non si era mai spinto così oltre: leggere attentamente le avvertenze.
(Paolo Chemnitz)