Negli ultimi anni la serialità si sta interessando sempre di più a fatti di cronaca realmente accaduti, si vedano ad esempio le indispensabili “Mindhunter” e “Narcos”, l’antologica “American Crime Story” (che durante la prima annata ha preso in esame il caso di O.J. Simpson e quest’anno ci sta regalando un altro gioiellino di buona fattura trattando l’assassinio di Gianni Versace) o ancora la nuovissima “Waco”.
“Manhunt: Unabomber” è ingiustamente passata un po’ in sordina: ne scriviamo un articolo dedicato proprio per celebrarla, in quanto merita attenzione essendo un prodotto di buonissima qualità. La miniserie è andata in onda dallo scorso agosto a settembre su Discovery Channel ed è arrivata su Netflix il 12 dicembre 2017. Vengono descritte le ultime attività criminali fino all’arresto di Ted Kaczynsky (noto anche come Unabomber), matematico statunitense di origini polacche laureato ad Harvard, il quale nel periodo dal 1978 al 1995 ha ucciso 3 persone e ne ha ferite 23 inviando pacchi postali esplosivi. Il movente di questi atti criminali sta alla base della sua ideologia, secondo cui il progresso tecnologico è un vero pericolo per l’essere umano (“we started in charge. Now we’re slaves to our own technology”). Egli ha scritto un documento (pubblicato dal New York Times sotto le minacce dello stesso Unabomber) intitolato “La Società Industriale e Il Suo Futuro”, meglio noto con il nome di Manifesto di Unabomber, contenente tutte le sue ideologie di ribellione. Kaczynsky è indubbiamente un uomo dalla carriera accademica notevole, dalla mente geniale e rivoluzionaria, personaggio qui interpretato da un bravissimo Paul Bettany, perfettamente in parte. Jim Fitzgerald (Sam Worthington) è invece il criminal profiler che riesce a catturare Unabomber dopo aver studiato a fondo il suo manifesto. I due protagonisti sono accomunati dall’insoddisfazione personale e da un’incomprensione a tutto tondo. Entrambi geniali e quindi costretti a isolarsi.
La struttura narrativa prevede due piani temporali ben distinti: da un lato le indagini e la cattura, mentre dall’altro vediamo Ted in prigione in attesa del processo e il conseguente incontro/scontro finale tra l’agente e il terrorista. Per struttura e tematica questa serie ricorda “True Detective” e “Mindhunter”, ma pur non raggiungendo gli alti livelli di queste ultime, “Manhunt: Unabomber” è un prodotto ben recitato, sapientemente scritto e confezionato per incollare lo spettatore allo schermo. La narrazione è incalzante e inoltre la descrizione minuziosa dei fatti coinvolge fino a farci provare empatia con Unabomber nell’affascinante sesto episodio a lui interamente dedicato, nel quale emergono il suo dramma interiore e il suo passato. Non è da meno l’ultimissimo episodio che chiude alla perfezione il cerchio con sequenze davvero memorabili e una messa in scena degna di nota. Una chicca imperdibile tutta da scoprire, soprattutto per gli appassionati del genere.
“L’essere umano è diventato solo un ingranaggio nella macchina sociale, privato di ogni dignità, autonomia e libertà. L’unica opzione disponibile è l’obbedienza. Status, promozione, denaro, auto più belle, case più grandi, bombardati dall’intrattenimento, modificati con terapia e Prozac. Finché non vuoi neanche più essere libero. L’unica alternativa, l’unica speranza, l’unico modo per evadere è far saltare tutto.”
(Martina Ippoliti)
L’ho trovato una serie alquanto buona
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Serie di tutto rispetto, sono d’accordissimo con te per molti aspetti, l’unica cosa che non ho notato è l’insoddisfazione personale di Jim, secondo me la sua tenacia riesce il più delle volte ad oscurarla e far sì che non si arrenda. Ho comunque scritto anch’io un articolo su Manhunt, mi piacerebbe se mi dicessi anche tu cosa pensi della mia opinione 😉
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