di Peter Greenaway (Gran Bretagna/Olanda, 1985)
“Il cinema è troppo importante per lasciarlo fare ai narratori di storie”, una frase che descrive al meglio il pensiero di Peter Greenaway, regista gallese classe 1942 cresciuto prima di tutto come pittore. Proprio questa sua formazione ha influenzato enormemente il suo approccio dietro la telecamera: il cinema per Greenaway è arte figurativa, le cui fonti vanno ricercate nella storia dell’arte e nell’iconografia in generale, con un occhio di riguardo al barocco (a suo modo di vedere un’epoca molto affine alla nostra).
“Lo Zoo Di Venere” (che nel titolo originale è “A Zed & Two Noughts”) è un’opera concettuale tra le più celebrate del regista, un lavoro complesso, stratificato e ricco di simbolismi non di facile assimilazione, motivo per il quale Greenaway non è mai stato un nome universalmente apprezzato, soprattutto se lo consideriamo in un’ottica autoriale e dalla forte impronta intellettuale. In poche parole un cinema non per tutti, nonostante quelle tematiche di ampio respiro come il sesso e la morte (una semplice base continuamente stimolata da citazioni e rimandi impregnati di un substrato culturale dirompente).
Due etologi – Oswald e Oliver Deuce – fratelli gemelli (e siamesi separati), perdono in un bizzarro incidente d’auto con un cigno entrambe le mogli. Questo tragico evento non fa che aggravare la loro ossessione per la decomposizione animale. I due cominciano a frequentare Alba (che nello stesso incidente ha perso una gamba) e instaurano con lei un’ambigua relazione a tre, complicata ulteriormente dall’inquietante presenza di Van Megeeren, il chirurgo che ha amputato la donna. Una sinossi scheletrica molto più facile da leggere che da osservare, vista la natura frammentata del film, spaccato da inquadrature frontali rigorose e da una messa in scena dal gusto ovviamente pittorico (in questo caso il riferimento esplicito ci riconduce ai quadri di Jan Vermeer, pittore olandese citato anche dalla presenza di Van Megereen, qui omonimo e parente immaginario dell’abile falsario vissuto durante lo scorso secolo).
Quella di Greenaway è una parabola darwiniana sull’evoluzione: l’ultimo stadio è rappresentato dall’uomo e questo processo viene descritto accuratamente all’interno dello zoo di Rotterdam (dove è stata girata la pellicola), un luogo di vita, di sofferenza e di morte, un ciclo fondamentale per il progresso stesso del genere umano. Il regista fu ispirato da una scimmia che viveva in gabbia con una zampa amputata e da un filmato che mostrava la decomposizione velocizzata di un topo, sequenze che ritornano di frequente durante il film (con un frutto, due pesci, dei gamberi, una zebra e un alligatore, tutte scene legate a un corso naturale di putrefazione mostrato senza censure).
In questo film c’è un elemento simmetrico di basilare importanza, un gioco di specchi e di doppi (incluso il personaggio del falsario Van Meegeren) che rimbalza senza sosta tra i vari fotogrammi, un compendio di immagini surreali, statiche (l’uso dello zoom e delle carrellate è limitato) e mai come questa volta decisive per ammantare di contenuti il cinema di Greenaway. Il nostro giudizio in questo caso è meno rilevante rispetto ad altre occasioni, proprio perché “Lo Zoo Di Venere” può essere facilmente identificato come un prodotto tipicamente autoreferenziale. Non è certo un peccato ammetterlo, ma è anche vero che un’opera del genere è quanto di più vicino all’arte in senso assoluto, al di là dei paradossi senza risposta (“pensi che la zebra sia un animale bianco con strisce nere o un animale nero con strisce bianche?”) e dei suoi significati criptici e spesso irrisolti. Il nostro preferito rimane senza dubbio “Il Cuoco, Il Ladro, Sua Moglie e L’Amante” (1989), ma sono dettagli, il cinema di Greenaway è raro se non unico.
(Paolo Chemnitz)
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