di Argyris Papadimitropoulos (Grecia, 2016)
Antiparos è un’isoletta delle Cicladi nel bel mezzo del Mar Egeo: come per tanti altri luoghi di villeggiatura estivi, è un posto silenzioso e malinconico durante l’inverno, mentre nei mesi più caldi si popola di turisti da ogni parte del mondo. Sole cocente, mare limpido, discoteche fino all’alba e tanti giovani votati all’edonismo e al divertimento più sfrenato, senza alcuna barriera morale.
“Suntan” rappresenta l’ennesima sorpresa di un cinema greco che non sembra voler mai smettere di stupirci positivamente. Un film doloroso e drammatico – con lo sguardo rivolto al nostro “La Voglia Matta” di Luciano Salce – travestito da commedia (almeno fino a un certo punto) e vissuto attraverso gli occhi di Kostis (un eccellente Makis Papadimitriou), il nuovo medico (l’unico) dell’isola.
L’incipit si svolge a dicembre: il sindaco accoglie il protagonista in un paese fantasma e per il dottore lo spettro della solitudine diventa un rito quotidiano, anche quando durante la notte di capodanno l’uomo è costretto ad abbandonare le poche persone riunite per festeggiare al fine di recarsi in una casa isolata, dove una vecchia è appena defunta. Quando il montaggio stacca sul titolo del film, la scena successiva si svolge in piena estate, con l’ambulatorio di Kostis preso d’assalto dai giovani. Proprio qui egli conosce Anna, una spigliata ventunenne in vacanza con un gruppetto di amici esuberanti. I comportamenti ambigui e provocanti della ragazza presto trascinano il medico dentro una spirale pericolosa, poiché egli – infatuato dalla bionda – comincia a trascurare il lavoro per poter trascorrere più tempo possibile accanto a lei (tra spiagge di nudisti e nottate alcoliche). Una felicità illusoria che si ritorce contro Kostis come un boomerang impazzito, una vera pugnalata al cuore che il (bravo) regista Argyris Papadimitropoulos lascia affondare in un finale tragico, paranoico e altamente destabilizzante.
Some bronze others burn è uno slogan perfetto per “Suntan”: una volta superato il limite, quella di Kostis diventa una vera ossessione che corrisponde alla perdita totale della dignità. Da uomo stimato a personaggio umiliato, calpestato e condannato all’autodistruzione. Ecco che il tema della solitudine emerge in tutta la sua potenza, una sensazione che paradossalmente colpisce ancora di più quando ci si trova in mezzo alla folla festante, in un club dove tutti bevono e poi scopano allegramente. Un meccanismo che il protagonista assapora per poco ma che presto vede scivolare via davanti agli occhi, come un bacio negato a un centimetro dalle labbra. Di chi è la colpa? Il regista non sembra provare compassione per nessuno, né per le vecchie generazioni frustrate né per questi giovani senza un briciolo di umanità, individui vuoti il cui carattere non viene per nulla approfondito (come se non ci fosse niente da scoprire dietro quei corpi che si aggirano completamente nudi sotto al sole). “Suntan” è quindi un film bastardo, spietato e privo di qualsiasi sensibilità, un boccone talmente amaro da digerire che anche il paesaggio marittimo di un luogo così incontaminato viene inghiottito dalle luci della notte, dal profondo nero che si impossessa della storia. Forse una metafora stessa della Grecia contemporanea: bella fuori, malata dentro.
(Paolo Chemnitz)