di Sion Sono (Giappone, 2001)
Sebbene in Giappone il suicidio non sia moralmente condannato come avviene nel mondo occidentale, la sua grande incidenza tra la popolazione ne fa uno dei maggiori problemi del paese, anche tra i giovani. Sion Sono apre il nuovo millennio con una delle sue opere più conosciute, un film sull’alienazione che trasforma però il suicidio da gesto intimo e doloroso a cerimoniale collettivo, vissuto addirittura con gioia e partecipazione.
La scena iniziale, con cinquantaquattro studentesse che si buttano sotto un treno della metropolitana tenendosi per mano e sorridendo, è uno dei momenti più alti del cinema di Sion Sono, un passaggio devastante del suo linguaggio concettuale che ritroviamo anche nella pellicola complementare a questa, “Noriko’s Dinner Table” (2005). Ma “Suicide Club” (“Jisatsu Sâkuru”) rinuncia all’approccio esistenzialista del suo futuro film gemello, imboccando una strada meno psicologica e dilatata ma molto più votata al ritmo, al dinamismo narrativo e allo splatter.
Il detective Kuroda è incaricato del caso, poiché si verificano altri suicidi tutti collegati tra loro: vengono rinvenute delle borse accanto alle vittime con all’interno alcuni indizi misteriosi, mentre una hacker di nome Kiyoko avvisa la polizia della presenza in rete di uno strano sito che riporta i decessi raffigurandoli con dei pallini bianchi (per i maschi) e rossi (per le femmine). Inoltre c’è un gruppo J-pop costituito da ragazzine che sta spopolando tra i teenager e che sembra fortemente legato alle vicende. La trama diventa sempre più ingarbugliata (anche confusa in più di una occasione) ma Sion Sono continua ad accumulare elementi utili per sbrogliare la matassa, obiettivo che egli raggiunge più su un piano teorico che a livello di sceneggiatura, caricando sulle spalle della giovane Mitsuko la possibilità di risalire all’origine del male.
“Suicide Club” è un’opera che mostra il delirio collettivo delle nuove generazioni, completamente assoggettate al bombardamento virtuale (e non) di regole e informazioni: ecco che quindi il suicidio diventa un gesto universale, un rituale che segna la fine di un gioco, quasi a voler anticipare l’avvento dei social network e alcune notizie più o meno veritiere legate alla cronaca nera (il famigerato blue whale in Russia). In questo caso però non c’è traccia di dolore o depressione, “Suicide Club” è infatti lo specchio di una società giapponese che corre verso il benessere e che allo stesso tempo compie dei sacrifici (umani) celandone la terribile natura. Un virus suicida che colpisce a caso tra gli adolescenti, individui ingenuamente affascinati da simboli vacui e sottoculture effimere e poi plasmati in modo subdolo dai mass media, fino alla morte intesa come completo annullamento della propria personalità. Un tentativo coraggioso che segna un cambio di rotta importante nel cinema del regista nipponico (qui il lato popular sostituisce le derive più sperimentali del passato), una svolta però ancora priva di quella consapevolezza che invece rintracciamo in alcune delle sue pellicole più recenti. In “Suicide Club” il caos primordiale prende forma: un film che ha il merito di lanciare nel mucchio tante idee che presto troveranno la loro giusta collocazione.
(Paolo Chemnitz)