di György Pálfi (Ungheria/Corea del Sud, 2014)
Dal regista di “Hukkle” (2002) e “Taxidermia” (2006) non potevamo che attenderci l’ennesima pellicola stramba, grottesca e altamente controversa. “Szabadesés” (letteralmente significa caduta libera, da qui il titolo anglofono “Free Fall”) è il film più recente diretto dall’ungherese György Pálfi, un’opera passata anche sugli schermi del nostro Trieste Film Festival.
Quello di Pálfi è un lavoro non eccessivamente lungo (ottanta minuti), un compendio di situazioni surreali suddivise a scompartimenti, come se stessimo guardando una serie di cortometraggi: a fare da collante tra una storia e l’altra c’è comunque una signora anziana che si trascina su per le scale verso il terrazzo del suo stabile. E’ notte, il cielo sopra Budapest è limpido e improvvisamente la donna si butta nel vuoto, suicidandosi. Una caduta libera che però non simboleggia la morte, bensì una risalita piano dopo piano verso quello che era il suo appartamento. Proprio all’interno di questo palazzo si nasconde qualcosa di anomalo, il regista infatti entra dentro ogni porta cogliendo l’essenza di sei diverse sfaccettature di una variopinta umanità (sette se consideriamo le iniziali incomprensioni della protagonista con il marito).
Dalla seduta di meditazione new age (che Pálfi schernisce con una tagliente e dissacrante ironia) passiamo a una festa elegante, dove però c’è una donna completamente nuda in mezzo agli invitati. Andando avanti incontriamo pure un ginecologo, un bizzarro siparietto in pieno stile sit-com e una famiglia disfunzionale. “Szabadesés” diverte prendendosi gioco delle stranezze insite nelle persone, esasperandone le ossessioni e le paure in un contesto weird ovviamente pungente e alienante (merito anche del contagioso score musicale). Nonostante l’eccessiva frammentazione dell’opera e un paio di segmenti meno interessanti, il film trova il suo filo logico proprio nel viaggio a ritroso della signora anziana, il cui suicidio può essere simboleggiato come un atto universale per una società al collasso, rappresentata dal regista attraverso le varie dinamiche mostrate negli appartamenti. Una metafora che emerge alla perfezione nel frammento migliore della pellicola, quando osserviamo i comportamenti di una coppia completamente fissata con l’igiene: ambienti asettici e cellophane ovunque (anche avvolto attorno al corpo per consumare un amplesso), prima che spunti fuori una blatta puntualmente presa a fucilate!
Quello di György Pálfi, pur nella sua folle dispersività, è un lavoro personale e fuori dagli schemi, un messaggio chiaro e tondo che mescola vari generi per raggiungere un solo vero obiettivo, destabilizzare il concetto di normalità. Un cinema sempre intrigante.
(Paolo Chemnitz)