di Nicolas Roeg (Gran Bretagna/Australia, 1971)
“Walkabout” (“L’Inizio Del Cammino” nel titolo italiano) segna il vero debutto alla regia per Nicolas Roeg, dopo l’esperienza condivisa con Donald Cammell per il precedente “Sadismo” (1970). Non si tratta del suo film più celebre (di solito nel nostro ambito il suo nome rievoca “A Venezia… Un Dicembre Rosso Shocking” del 1973), ma quello del regista britannico è un lavoro che non può essere dimenticato.
Di opere incentrate sulla contrapposizione tra natura selvaggia e società civilizzata ne conosciamo parecchie, pensiamo al surreale “Andrò Come Un Cavallo Pazzo” (1973) di Fernando Arrabal o al recente magnifico “El Abrazo De La Serpiente” (2015) del colombiano Ciro Guerra. “Walkabout” segna una delle tante strade imperniate su questo dualismo, raccontandoci una storia ambientata nel cuore dell’outback australiano: “when an aborigine man-child reaches sixteen, he is sent out into the land. For months he must live from it. Sleep on it. Eat of its fruit and flesh. Stay alive. Even if it means killing his fellow creatures. The aborigines call it the walkabout. This is the story of a walkabout”. Questo aitante e solitario autoctono australiano è la controparte sana di uno sterile e artificioso mondo industrializzato, dove la ricchezza non corrisponde di certo alla felicità. Ne sanno qualcosa una bella diciottenne (Jenny Agutter) e il suo fratellino piccolo, costretti a vagare in queste lande desolate in seguito al suicidio premeditato del padre, avvenuto durante un pic-nic fuori città da lui organizzato. L’incontro con l’aborigeno per loro corrisponde alla salvezza: solo lui infatti – nel frattempo impegnato in questo rituale iniziatico – conosce quella terra e sa uccidere gli animali per il suo autosostentamento. Proprio queste scene di caccia hanno creato un certo alone oscuro attorno al film, poiché le bestie sacrificate hanno ovviamente urtato la sensibilità di qualcuno. In questo caso è importante rimarcare la netta differenza (sottolineata anche dal montaggio) tra la caccia nel deserto a scopo di sopravvivenza e la freddezza matematica con la quale, un macellaio qualunque ripreso nel suo negozio, taglia un bovino sul suo banco di lavoro. Ancora una volta Nicolas Roeg si muove attorno alla dicotomia sopracitata, la quale emerge con prepotenza nell’intenso e doloroso finale.
“Walkabout” (ispirato al romanzo “La Grande Prova” di James Vance Marshall) è un film incredibilmente poetico: la fotografia (curata dallo stesso regista) è sontuosa, così come lo sono le inquadrature, le quali spaziano dal campo lungo ad alcune virtuose zoomate che si soffermano sugli animali con un approccio a tratti documentaristico. L’outback australiano non era mai stato così suggestivo, nemmeno nella contemporanea pietra miliare ozploitation “Wake In Fright” (1971). Quello di Roeg è cinema antropologico che non rinuncia affatto al dramma e all’erotismo (la presenza femminile ha un suo peso specifico, soprattutto quando la vediamo senza veli), evitando però di appesantire una sceneggiatura di fatto molto scarna e senza inutili orpelli (eccetto per le trascurabili sequenze con gli scienziati nel deserto). Un film esteticamente perfetto quindi, da riscoprire in tutta la sua destabilizzante interezza.
(Paolo Chemnitz)
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