di David Pringle (Gran Bretagna, 2016)
Gli inglesi, soprattutto durante il weekend, si danno alla pazza gioia concedendosi qualche bevuta di troppo, con effetti collaterali non proprio piacevoli. Lo sa bene il giovane Salah, proprietario di un negozio di kebab (il famigerato kebabbaro come diciamo qui in Italia), un uomo spesso costretto a sopportare la gente ubriaca e molesta che si siede ai suoi tavoli durante il fine settimana. Una notte, un gruppo di balordi uccide il padre del ragazzo in seguito a una rissa fuori dal locale: stufo di queste persone e carico di rabbia dopo un ennesimo alterco, Salah si trasforma anch’egli in un feroce assassino. Come occultare però il corpo della prima vittima? Semplice, trascinandolo nel retro del negozio per poi utilizzarne la carne per preparare un delizioso kebab! Questo è solo l’inizio, poiché il protagonista comincia a prendere gusto nel commettere omicidi, fino a quando l’evoluzione degli eventi lo costringe ad affrontare una realtà molto più difficile da gestire.
“K-Shop” è stato girato nella città costiera di Bournemouth e sin dai titoli di testa il regista Dan Pringle utilizza veri filmati della scatenata movida notturna albionica, con tanto di risse, gente sbronza che vomita per strada e ragazze disinibite che mostrano le loro grazie e pisciano liberamente sul marciapiede. Questa costante si ripete anche troppo durante la visione dell’opera, un tantino presuntuosa visto che sfiora le due ore di durata (quando si poteva tranquillamente sforbiciare il tutto di almeno una ventina di minuti). Il limite di “K-Shop” è da ricercare proprio qui, in un ritmo narrativo altalenante che mostra una ridondanza eccessiva di situazioni a lungo andare troppo statiche e superflue. Di positivo troviamo qualche succulenta scena splatter e una valida interpretazione del simpatico Salah (Ziad Abaza), unico mattatore di una pellicola contornata da altri personaggi minori meno dirompenti. Resta infine da evidenziare una discreta presenza del tipico black humour di taglio british, il film dopotutto evita di prendersi troppo sul serio, contemplando la giusta dose di ironia soprattutto nei momenti topici (sottolineati per giunta da una solare colonna sonora indie rock).
“K-Shop” è un debutto in parte acerbo, di quelli che si possono vedere ma anche saltare senza troppi rimpianti, nonostante un’idea di fondo tutto sommato intrigante ma comunque lontana anni luce dalle follie cinematografiche viste a Hong Kong: impossibile non pensare ai ravioli al vapore del mitico “The Untold Story” (1993) o al più recente “Dumplings” (2004), lavori accomunati dalla carne umana utilizzata come pietanza per consapevoli (o inconsapevoli) buongustai. Non possiamo neppure tirare in ballo l’elemento sociale, poiché quello di Dan Pringle non è certo un horror con un messaggio politico imponente. Una certa tensione è forse suggerita tra le righe (l’onesta famiglia di immigrati contro un popolo senza rispetto per il prossimo), ma ogni tentativo di provocazione si spegne nel macabro umorismo suggerito dalle immagini. Adesso non ci resta che mangiare un kebab, nella speranza di non incappare in qualche resto umano poco commestibile.
(Paolo Chemnitz)